La sospensione

In letteratura si usa una espressione:
sospensione dell’incredulità (suspension of disbelief, dicono gli inglesi).

Con essa ci si riferisce alla volontà di lasciarsi trasportare da una narrazione fantastica, senza curarsi dell’applicabilità di quanto rappresentato.

Accade però – in un’opera che intenda invece aderire a plausibilità narrativa – che l’autore inserisca un particolare non corretto, incongruente con la meccanica del reale.

Di fronte a tale stonatura il lettore perde interesse al racconto: l’incantesimo di navigare assieme ad una fluttuazione immaginata ma possibile si rompe.

Passiamo ora dalla letteratura parlata a quella veduta.

Sì, alla fotografia, nei casi in cui nutra ambizioni di linguaggio.

Qui la sospensione è benvenuta, poiché apre la strada alla metafora.

Due fotografie sono a corredo di questo brano.

E abbiamo una sospensione doppia.

Perché si chiede a chi guarda di andare oltre la letteralità documentaria, e perché il soggetto è dimensionalmente sospeso.

Arbusti riflessi in acqua.

La fedeltà del riflesso dipende da un fattore terzo.

Il vento – o il moto di elemento transitante – che muove l’acqua che muove i lignei steli.

Se non c’è, il riflesso sarà fedele, ovvero di speculare coincidenza.

Se spira altererà la sagoma del “positivo”.

Nel caso dell’arbusto singolo la quiete elargisce un riflesso non differente dall’originale.

Nell’immagine che contiene più ramoscelli la perturbazione dell’acqua deforma – rendendole saettanti – le loro propaggini.

Se la fotografia dell’arbusto singolo è capovolgibile senza detrimento dell’aspetto complessivo (giusto un contrasto lievemente meno accentuato nella parte divenuta superiore), quella del fascio non è suscettibile della stessa operazione senza rivelare l’ancillarità della parte inferiore: la parziale decomposizione del tratto tradisce la sua l’immaterialità, la sua esistenza meramente visiva, in contrapposizione alla materica concretezza di ciò che l’ha generata.

Ma all’esterno di queste articolazioni un dato permane comune ed immutato:
l’essenzialità del tratto riporta alla bidimensionalità.

Ecco, chi guarda non deve più svolgere un’operazione di traslitterazione logica.

Non ha più bisogno di dire: sto guardando uno schermo od una stampa, ma so che nella realtà l’oggetto è tridimensionale.

No, l’estrema parcità – uno sfondo neutro ed impalpabile, un soggetto filiforme – del contenuto veicola una interpretazione che asseconda la riduzione a puro segno.

Vi è solo la luce del bianco e il disegno del nero.

Non profondità, non ambiguità sviscerabile.

La seconda sospensione, dicevo.

La prima quella del fruitore dell’immagine che preventivamente si dispone a sbarazzarsi dei puntelli della verosimiglianza.

La seconda sgorga dal prosciugamento della trama: non più di uno scarabocchio su di un foglio, lo si direbbe.

Tutto ciò, viene dal mondo.

Io fotografo non ho fatto niente.

Ero solo alla ricerca di una scabra sintesi, ed ho sostato ove l’ho trovata.

Letteratura veduta che si è discostata da letteratura parlata allorché quest’ultima attinge al sublime dell’invenzione.

L’invenzione si sposta dall’autore al fruitore, che qui si scrolla di dosso l’obbligo di una accezione monofunzionale.

Non è più arbusto in acqua, è ciò che vuole lui.

E la sospensione diviene un dolce sciabordio.

È la leggerezza del librarsi, liberi anche di non attribuire.

 

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Claudio Trezzani

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