La (ri)conoscibilità

Cosa ritrae la foto qui sopra: un circuito elettrico, lo schema di un computer, un dipinto? No, è un cimitero visto dall’alto di notte.

La situazione è paradigmatica in quanto si situa agli estremi della riconoscibilità, il che reca per corollario ulteriori interrogativi: qual’è il limite dell’astrazione? Come essa s’ottiene?
È una vexata quaestio non perché sia irrisolvibile nella sua definizione, ma per la natura evanescente dei suoi confini.
Io perseguo l’astrazione anche nelle situazioni ordinarie. La chiave è l’ottenimento della così appellata “pulizia formale”. Il fotografo, se non vuole manipolare il visibile dopo lo scatto, non ha che da ricercare vedute che lo consentano, scartandone di inidonee. Si tratta di scegliere situazioni che non presentino elementi di disturbo e all’interno d’esse definire la scelta con l’inquadratura.
Ma in cosa consistono gli elementi di disturbo?
Componenti visivi incoerenti con la composizione che si vuole isolare, dettagli disfunzionali al racconto che si vuole narrare, dissonanze al canto che si vuole intonare.
Vi sono diversi livelli di estraneità, dalla semplice interferenza al disturbo che, oltre a deturpare, trasfigura.
E questo verbo, trasfigurare, è una vox media di cui ora m’affretto utilizzare l’accezione opposta: proprio trasfigurare è il fine, solo che s’applica alla partitura complessiva, non ad una cacofonia occasionale. In altre parole: se  una veduta ci fornisce l’opportunità di richiamare una determinata lettura con una inquadratura che escluda elementi (la cui inclusione “trasfigurerebbe” l’immagine vanificando lo sforzo compositivo) il risultato dell’operazione “trasfigura” la veduta in senso positivo, nel suo alludere ad una lettura che trascende la letteralità della percezione.
Anche qui, vi sono livelli. Un primo stadio è: non rinnegare, anzi esaltare. Si lavora sul senso letterale dell’immagine “purificandolo” da spinte distraenti. Ma vi sono ambiti in cui la scelta dell’inquadratura conduce verso una qualità di astrazione che virtuosamente ostacola la riconoscibilità del soggetto.
Quale tipo di inquadratura permette ciò?
Scarto subito l’aggettivo “inedita” perché essa ha meramente a che fare con l’esperienza individuale, non con la peculiarità semantica o sostanziale. La macrofotografia è una strada possibile, anzi assai promettente. Nel caso qui trattato, invece, gli ingredienti che hanno permesso l’esecuzione del compito sono stati la notte, le luci, l’inquadratura zenitale ad elevata altitudine. Il fotografo, in tal modo, instilla il dubbio in chi guarda, gli suggerisce strade o le …ostacola.
Ma in ultima analisi spiana la libertà percettiva ed immaginativa di chi guarda, in un proficuo svincolo dall’esigenza di ricondurre il visibile ad una trama di razionale utilità.
Ecco perché scrivevo: qualità di astrazione che “virtuosamente” ostacola la riconoscibilità del soggetto. In questo avverbio risiede la preziosa opportunità espressiva di instillare in chi guarda la possibilità di (ri)conoscere quanto osservato alla luce della propria esperienza e sensibilità, dopo che questo processo è già stato vissuto, in un asincrono parallelismo di parziale incomunicabilità, dall’autore dello scatto.
È questa sinergia a distanza che libera forze ed espande fruizioni, in una personale parafrasi che mi è cara di quanto asseriva Archibald MacLeish: non cercare significato, ma essenza.
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