Lo sapete: chi è nato anteriormente al primo gennaio 1986 può legalmente condurre una Kawasaki Ninja od una Suzuki Hayabusa con la sola patente B.
Anche se si tratta di una gentile signora di ottanta primavere che non sale su di una due ruote da quando, ragazza, percorreva in bicicletta i viali della sua cittadina.
Oh, certo, per i ciclomotori hanno introdotto la categoria AM.
Epperò, esistono semafori rossi.
E segnali stradali indicanti precedenze et similia.
Cose che deve conoscere anche un bambino, pena tragicità d’eventi.
E’ la promiscuità circolatoria, bellezza, direbbe Humphrey Bogart parafrasando sé stesso.
Che è tale anche in cielo, ormai.
Non solo promiscuità tipologica dei mezzi, ma anche eterogeneità dei conduttori.
Non m’annovero tra coloro che vorrebbero patenti per ogni aspetto della vita quotidiana, benché le ritenga assai utili.
E però esistono specificità di comportamenti sia oggettuali che umani.
Sì, oggettuali.
Al di là delle classificazioni normative, un drone non è necessariamente inoffensivo perché così dichiarato dalla
Legge.
A tal proposito ho preso una decisione storica che influirà sui destini dell’Universo.
Essa è: non aiuterò più novelli aspiranti dronisti a realizzare i loro primi voli se mi si presentano con in mano modelli sprovvisti di GPS.
Lo so: sono in corso sperimentazioni per captare il segnale prodotto da aeromobili con GPS non funzionante tramite imponenti batterie d’antenne a terra.
Ma ciò afferisce situazioni professionali al di fuori della comune esperienza dei dilettanti.
I quali, invece, possono essere indotti ad acquistare droni economici sprovvisti del summentovato GPS.
Mine vaganti, l’espressione è quella giusta.
Questi droni sono autentiche mine vaganti.
Perché quando perdono il segnale escono dal controllo dei loro utilizzatori.
Cosa allora è più pericoloso?
Drone di medio peso in appropriatezza di dispositivi e conduzioni, oppure drone leggero – magari paraelicato – di suo proprio impazzito?
Vedete, non ho ancora correlato quest’ultimo fenomeno alla patente.
E non lo correlo neanche adesso.
Perché – attestato no; attestato sì – i divieti non cambiano.
Oh, giusto un pochetto cambiano.
Ma sono differenze marginali legate a diverse categorie di patenti interfacciate a differenti scenari (stare meno lontani dalle persone; porre maggior distanza tra il dronista e il drone).
Le zone – al netto della succitata precisazione – invece quelle sono.
E le devono conoscere anche coloro che non hanno la patente.
Dove si può volare, dove no.
A quale altitudine, in quale fascia temporale.
Per far le cose bene – meglio, in sicurezza – occorre indefessamente scannerizzare.
Fronte retro di carta d’identità e codice fiscale, intendo.
Onde iscriversi al sito che mostra le mappe dell’aviazione civile.
Ed inoltre: esperienza insegna non solo che non tutti i droni bloccano di loro il funzionamento quando si è in zone interdette, ma anche che il talune circostanze i droni che dispongono di questa funzionalità la usano a sproposito, non del tutto facendo coincidere il loro blocco via software con le aree così come sono disegnate dai responsabili della navigazione aerea.
Insomma, siamo sempre lì: il drone è una cosa seria, impossibile prenderlo alla leggera.
Accennavo al fatto che non aiuto più chi mi si presenta brandendo un drone senza GPS.
Per la sua sicurezza, e per quella della collettività.
Ma c’è anche una frase tipica, topica e sospetta, che troppo spesso mi capita udire: “per me è solo uno sfizio”.
Ecco, non si può.
Coloro che la proferiscono, indirizzo a sana e profonda meditazione sui misteri escatologici della vita.
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Claudio Trezzani
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