Nascere di nuovo.
Farlo negli occhi di chi guarda.
Sapete, parecchio tempo fa feci in questa rubrica il gioco di attribuire una pluralità d’intenzioni interpretative da parte di visualizzatori diversi, in dipendenza dal loro percorso di vita.
Ma l’operazione non è immutabile: a seconda del contenuto, una fotografia può “mobilitare” esperienze diverse.
Così, se in una immagine vi può essere materia per un giardiniere che giudichi la potatura di una pianta, in un’altra può intervenire un agente di Polizia Locale che s’avveda di una automobile parcheggiata fuori dalle delimitatorie strisce.
Esempi volutamente prosaici, a sottolineare la distanza tra il proposito del realizzatore e quello del visualizzatore.
Un fotografo voleva intendere una composizione in senso astratto, e c’è chi scorge una cartaccia gettata al suolo.
Chi ha pigiato l’otturatore intendeva catturare peculiari condizioni di luce, e chi esamina il fotogramma riconosce il tetto di una abitazione affittata per le vacanze.
Due sono le fotografie a corredo di questo brano, per rideclinare il concetto.
Quella senza ombra del manufatto – la trovo più banale – è qui riportata unicamente per mostrare il promontorio di Sirmione.
A me pressoché nulla importa – se non nella residuale sua dialogante pesatura – ma c’è chi potrebbe appuntare lì la sua attenzione.
L’altra presenta un potenziato effetto grafico: l’inclusione del disegno a terra apporta un più insistito accento sull’aspetto formuale, che trova corollario nel dosato dinamismo della figura.
Potrei continuare a lungo, ma ciò esulerebbe dalla presente trattazione: non ci stiamo occupando di ciò ch’interessa a noi fotografi, bensì alla percezione di un bacino miratorio generico.
Così potremmo imbatterci nelle seguenti affermazioni:
- Sirmione da lì è parallelo a Desenzano, ciò facilita l’individuazione di una naviguale rotta
- dovrebbero pulire meglio – per converso: stanno pulendo bene – il lungolago
- il Comune ha sostituito alcune mattonelle con altre di diverso colore
- l’altro giorno ho trovato un metro quadro di ghiaia tra quelle rocce per prendere il sole
- ieri ho fatto la pipì giusto a destra dell’inquadratura perché semiriparato da un cespuglio di bosso,e profittando di umana assenza.
- la coda non dona alla corritrice
- comprerò le scarpette di quel corridore
- quel corridore ha una postura corretta
- quel corridore ha una postura scorretta.
E così via, ad libitum.
E qui si pone un problema più sostanziale che semantico, benchè la considerazione parta proprio dall’etimologia:
Il titolo che ho dato a questo articolo è La Palingenesi Eteroindotta, ma è veramente così?
La lingua greca d’insegna: palingenesi significa rinascere; eteroidotta è cosa provocata esternamente da altri.
Ma è rinascere solo vedere cose diverse in una stessa fotografia?
Sapete, il maggior iato si ha quando la mente si libra tra suggestioni visualmetaforiche: la nuvola vista come cane, quel tipo di cose.
E del resto, chi vede parzialità funzionali in una immagine non fa altro che attingere in ciò che c’è, senza aggiungere o travisare.
Ma non vi è da trascurare il portato emotivo di ogni guatatore: anche al cospetto di valutazioni banali, trapela sempre il vissuto di chi guarda.
Vi è pertanto un trasferimento d’emozioni che – se pur par peregrino – arricchisce nella misura in cui amplia.
Sì, amplia.
La scienza forse scoprirà nuove connessioni, fuor e dentro il visibile.
Per intanto sappiamo che l’umanità vibra.
Ed il mondo, con essa.
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Claudio Trezzani
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