La falsa pista (non solo risoluzione)

Una articolata premessa per poi approdare al tema di questo brano.

Risoluzione: i più penseranno subito ai pixels. Fuorviante, in parte. Risoluzione può essere sinonimo di risolvenza, in termini generali. Qui però lasciamo al lemma Risoluzione il compito di designare la mera conta dei pixels, che significa poco. Meglio allora impiegare il termine Risolvenza per affrontare la questione in modo contestualizzato e specifico.

Con l’avvento della Rete, è agevole reperire un buon numero di competenti dissertazioni su come il potere risolvente si differenzi dall’acutanza, sui circoli di confusione e sul fenomeno della diffusione, su come l’analisi della risposta in frequenza tracci un quadro più completo rispetto all’esame delle linee per millimetro. Nell’ambito della stampa divulgativa su carta, purtuttavia, la trattazione più esaustiva nella quale mi sia imbattuto rimane l’articolo di Lucio Mandarini apparso sul fascicolo di settembre 2008 del mensile specializzato FotoCult.

Qui basti per sintesi ancorarsi come con una bussola al concetto di frequenza spaziale. La questione è di empirica evidenza sin dai tempi della pellicola: negativo più piccolo=maggiore necessità di ingrandire=perdita di potere risolvente.

Declinata al mondo digitale, la faccenda può essere illustrata con altrettanta evidenza empirica da un altro rapido esperimento: montate lo stesso obiettivo (ovviamente dotato di appropriato cerchio di copertura) prima su di un apparecchio il cui sensore sia di formato Leica, indi su di uno con sensore di taglia aps-c: al lordo di altri fattori – non determinanti a questo fine – si assisterà ad una perdita di nitidezza misurata con il metodo MTF per il semplice fatto che la frequenza spaziale è divenuta più elevata, ovvero meno favorevole. Ma anche nell’empireo dei sensori di generose dimensioni non tutto va per il meglio, e lo affermo sulla base dell’aspetto che intendo evidenziare in questo articolo, poiché su di esso trovo non ci si soffermi a sufficienza. I costruttori destinano uno sforzo postprogettuale (nel senso che non afferisce il disegnare lenti) crescente alle così appellate “correzioni in camera”.

Sarei ingiusto nel considerarle una pura e semplice scorciatoia, tuttavia esse non sono immuni da controindicazioni. Partendo dagli abissi, chiunque abbia un programma di postproduzione in grado di mostrare (non lo sono tutti, anche tra i blasonati) le condizioni precorrettive, nell’ambito delle action cameras potrà appurare quanto pesanti siano gli interventi: addirittura, obiettivi nativamente fish eye trasformati in grandangoli rettilineari. Ma, come accennavo, intendo qui evidenziare quanto avviene anche ai “piani alti”. Si consideri, per rimanere nell’ambito di lenti caratterizzate dalla restituzione di ampio angoli di campo, una focale fissa o, meglio ancora, uno zoom. Non menziono uno specifico costruttore, perché il fenomeno è trasversale, coinvolgendo le migliori famiglie. Consideriamo così una focale puramente ipotetica, fissandola in 15 mm.

Ebbene, se per questo obiettivo è stata prevista una correzione in camera volta a contenere (la tendenza è quella di non azzerare, perché l’azione darebbe luogo ad ulteriori inconvenienti) le fisiologiche distorsioni ed aberrazioni, il risultato del chirurgo digitale sarà che la focale non sarà più di 15 mm, né la nitidezza la stessa. Già, perché l’operazione non è indolore: l’interpolazione eroderà porzioni periferiche dell’inquadratura ed intaccherà il potere risolvente del malato così parzialmente curato.

Vale quindi il noto motto secondo cui è meglio prevenire che curare: oggi si compiono miracoli nel progettare e realizzare schemi ottici particolarmente efficaci, ma superato il limite della possibilità, agire digitalmente comporta pro e contro.

E questo vale anche per qualcuno dei vostri costosi vetri.

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