Una volta un fotografo – ed era un professionista – mi disse che non sempre utilizzava la sua reflex digitale “a piena potenza”.
Si era agli albori di ciò che i francesi non a caso definiscono numérique, ovvero il passaggio dal supporto sensibile alogenurico a quello “numerico”, digitale, per ottenere fotografie.
Così, la palese, relativa incertezza dell’espressione “a piena potenza” testimoniava una non ancora completa acquisizione dei concetti tecnici alla base della riproduzione a sensore.
Ovviamente quel professionista dicendo “a piena potenza” intendeva significare che talvolta impostava la fotocamera per risoluzioni inferiori a quella nativa del dispositivo.
Già, risoluzione.
Vuol dire tante cose, risoluzione.
A seconda dell’ambito d’applicazione semantica, addirittura cose che possono parere opposte all’accezione fotografica.
Perché resolvere – questa la derivazione etimologica del lemma – in latino sta per sciogliere, annullare.
Tutto il contrario di quello che s’intende in fotografia, ove la risoluzione è convenzionalmente divenuta paradigma – persino, fraintendendo, sinonimo – della quantità di pixels.
Su questo argomento già scrissi, e qui non intendo ripetere considerazioni tecniche da me già espresse.
Ma quale entità di nocumento – di detrimento alla così appellata qualità d’immagine – comporta il non disporre di abbondanza di singoli ricettori?
Siamo alla “desoluzione”, la parola – arbitrario neologismo – che ho scelto a titolo del presente articolo.
Quesito volutamente malposto, da parte mia.
Non solo poiché – ancora, solo un accenno per non ribadire nozioni già note – la densità di pixels può addirittura influire a sfavore, della summentovata qualità d’immagine.
Ma anche in quanto in taluni frangenti la carenza di dettagli fini può apportare un viraggio espressivo all’immagine.
Viraggio espressivo?
Intendiamoci, la questione ruota attorno ad un ambito di gioco/forza:
si tratta di valutare esiti in situazioni ove lo stato della tecnica fotografica ancora non consentiva una esasperata riproduzione dei dettagli, e/o vi era concomitanza di inadeguatezza di dispositivi e prassuale filiera.
Prassuale filiera?
A corredo di questo brano vi sono due fotografie scattate nella succitata pionieristica fase della rivoluzione digitale.
Oltre al fatto che i files provenivano da una macchina da soli 3 megapixels (per quanto rimembro, posso anche aver utilizzato risoluzioni inferiori al dato di targa), essi sono stati stampati malamente, sia per qualità della stampante e carta che per impostazioni software utilizzate.
Ciò che “rimane” sono due immagini che paiono più il prodotto di un pennello che quello di una lente.
In aggiunta a ciò, il sensore della fotocamera era di taglia inferiore a ciò che poco dopo s’instaurò come limite oltre cui non si scese più – smartphone a parte -ovvero due terzi di pollice.
Quasi impossibile, dunque, ottenere una sfocatura selettiva.
Ciò però ha consentito l’esplicarsi di una opportunità oggidì pressochè inattingibile.
Con riferimento alla più “martoriata” delle due fotografie – quella delle foglie in primo piano e l’innaffiatoio sullo sfondo – ha reso possibile una messa a fuoco di entrambi gli oggetti.
Ergo, si è potuto considerare “paritari” – degni della medesima attenzione – due componenti dell’inquadratura rispetto ai quali diversamente si sarebbe stati costretti a scegliere, dal punto di vista dell’evidenziazione.
Un club f 64 “de noantri”, forse direbbero a Roma.
Poi, la danza.
Sì, la danza.
Lugano, Svizzera.
Paglietta in testa e camicia a longitudinali righe, un uomo procede in salita.
Gesti, grafie, colori.
Il pensiero – la persistenza percettiva dell’osservazione . si condensa nell’interazione di questi elementi.
Nessuno preponderante, ciascuno funzionale all’orchestrazione complessiva.
Nessuna profondità di campo se non quella che il cervello umana “ricostruisce” in base al contesto.
Nessuna finezza tonale da delibare.
Nessun affilato microcontrasto di cui bearsi.
Solo sintesi, e tale rimane nel ricordo.
Ecco, la fotografia.
Coagulare, addensare, ricondurre ad unità.
La composizione si fa momento, l’attimo linguaggio in sé conchiuso.
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Claudio Trezzani
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