La danza della pioggia

Per un Cherokee – il nativo americano, non la fuoristrada – la pioggia è da invocare non solo per terrena fertilità, ma anche per purificare da spiriti maligni.

Per i fotografi lo spirito maligno è Ηλιος.

Sì, il Dio del sole.

Distrugge la poesia, il sole.

Sapete, giorni fa scendeva un pioggerellina fine, gentilmente rigava i vetri dell’automobile.

Al di là dei vetri un airone impettito la sfidava presso una roggia.

Non si ripara, lui.

Immagino preferirebbe, ma ha da procurarsi il cibo.

E non scherza, lui.

Neanche noi fotografi dovremmo scherzare, eppure vi incorriamo.

Io cerco di farlo il meno possibile.

Con ciò intendendo: non esimermi dal vagare al limite della pioggia.

Appena smette, o si riduce ad acquerugiola, io scatto.

Sapete anche questo: con attrezzatura terrena l’acqua che scende dall’alto la si può anche ragionevolmente affrontare, a patto che siano tropicalizzati sia il corpo macchina che l’obiettivo.

Con il drone, no.

Certo, c’è il rischio di compromettere l’elettronica della camera.

L’eventualità più incresciosa è però che il drone cada.

Caso non frequente, ma drammaticamente possibile (successe persino a modelli marcatamente professionali).

Sì arriva così ad una divaricazione di resistenza tra accessori e mezzo.

Ad esempio, anche un iPhone piuttosto vecchio – abbinato al radiocomando di conduzione – dichiaratamente resiste a qualche aggressione umida – mentre solitamente (ma esiste qualche fabbricante che ne realizza di sub/super acquei) un drone non garantisce alcuna capacità di affrontare l’evento.

Perché tutto questo dannarsi per ciò che il cielo scarica?

Sapete, nell’incipit di questo articolo avevo scritto che per i fotografi lo spirito maligno è Ηλιος.

Distrugge la poesia, aggiungevo.

Dunque, fotografare o videografare al limite della pioggia è un’autentica benedizione.

Quel giorno, dopo che l’immagine dell’airone indomito era scorsa e svanita traverso il finestrino, mi sono recato presso una fluviale lanca morta.

Convenzionalmente morta per elisione di sbocco, ma vividamente via per ciò che è ed ospita.

L’essere umano intridendosi di queste acquosità torna alla primigenia esistenza intrauterina.

Rade gocce cadevano, eppure ho dovuto – interiore insopprimibile dovere – far alzare in volo il quadrirotore.

Le due fotografie e il filmato (nella sua sequenza intermedia e finale) a corredo del presente brano mostrano lo scenario incontrato.

E’ quando il sole è trattenuto che la poesia s’eleva.

L’intimità non è altrimenti raggiungibile.

L’airone, lo sa.

A noi non resta che osare, abbandonarci all’abbraccio, partecipare al soffuso lirismo.

 

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Claudio Trezzani

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