Vi sono cacciatori di tornado.
Io invece caccio trabucchi.
Ne trovo più ad oriente che ad occidente dello Stivale, in mare aperto come nei corsi d’acqua interni.
Comacchio, più Nyx che Emera.
Sì, il blu non cede ancora all’arancio.
Ad occhio nudo, più tenebra che luce.
Ma io posso scegliere.
Trenta secondi con l’otturatore aperto e il blu della notte diviene un azzurro che va incontro al giorno.
Una fotografia “scientifica” in senso negativo, questa qui tra le due a corredo di questo brano.
Bolla, visione frontale, esposizione ben calibrata.
Per risultato, algore.
Nessuna personalità, e lo sfondo, affollato, disturba.
Ho potuto scegliere, dicevo.
Se lasciare notte la notte, o portare la luce.
E anche dopo, al computer, aggiustamenti di fino.
Scegliere.
Questo ci porta a Ryuichi Watanabe e Giancarlo Vaiarelli.
Autore e stampatore.
Ryuichi ha realizzato la fotografia – quella in scala di grigi, qui – e Giancarlo l’ha stampata.
Scegliere con somma perizia artigianale, qui.
Mascherature manuali o con oggetti.
Ma non è su questo che intendo soffermarmi.
Parlerò di Poesia, invece.
Ne è pregna, la fotografia di Ryuichi.
Inscritti nel formato prescelto, vi sono due sedici noni sovrapposti.
In alto il cielo, drammatico.
In basso il mare, punteggiato.
Punteggiato da trabucchi.
Nessuna brutale frontalità, qui.
Da destra a sinistra, un dolce digradare.
Che non è naufragare, a dispetto di altro Poeta.
No, qui si passa dall’assertività all’allusione.
Il trabucco grande non s’offre con la volgarità dell’interezza.
Mostra il suo pieno, indi si fa freccia.
In basso il riflesso del palo esattamente compreso, ma la spinta è a sinistra.
Ove corti segmenti in acqua preparano alla sfumatura.
Un altro denso vuoto, eppoi la blanda teoria dei trabucchi cugini che corre, ma senza fretta, verso l’orizzonte.
Rettangolo, mezzaluna (la rete), evanescente garbuglio ove il cielo preme sull’acqua.
Un linguaggio stenografico con qualche segno in più di linea e punto.
Ma con la stessa musicale intermittenza.
Infine, appena percepibile al centro del margine sinistro dell’inquadratura, l’obliquo braccio.
Come in una nota frase idiomatica anglosassone, sembra dire: non andare oltre.
Non ne hai bisogno: spazia pure nell’immagine, ma beati dei suoi confini.
Tutto ciò accade sotto, nel sedici noni inferiore che si potrebbe ricavare.
Perché allora altrettanto spazio sopra?
Perché lì stanno le divinità immaginate.
Tempestano tra loro, è vero.
Ma non vale qui il motto “nihil novi sub sole”.
Succede tanto di nuovo, invece, sotto.
Continuamente e simultaneamente.
Simultaneamente perché la percezione di moltiplica istantaneamente tra i percettori autori e i percettori rimiratori.
E il cielo, non c’è solo Toutatis ad impedire che rovini giù.
Piuttosto, curioso ed affamato, preme.
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Claudio Trezzani
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