È un olio di Gustave Moreau. Ha ispirato ben sette pagine di “À rebours”, composizione letteraria in cui Huysmans fa sciorinare al protagonista una pletora di suggestioni intorno ai valori simbolici e alla loro incarnazione su tela originati dalla rappresentazione del mito di Salomè.
A cosa si deve questo profluvio di sensazioni esplicitate? Al fatto che il pittore mette in scena “quello che vuole”. E noi fotografi? No, non possiamo. Un momento, però.
Chi dipinge, scolpisce, può rendere materici i simboli in maniera diretta, mentre chi fotografa li può evocare solo in maniera estrapolata. Ma cosa sono i simboli? L’etimologia viene dal greco “sumbolon”, “accostamento”. Si tratta dunque di una correlazione tra entità suscettibile di diverse interpretazioni circa la reciproca interazione.
Possiamo essere grati a Kant per aver staccato ed elevato il concetto di simbolo rispetto a quello di segno, ed aver sottolineato che esso, oltre a proprietà assimilabili a quelle del contenuto, possiede una indeterminatezza evocativa che schiude uno scenario di inesauribilità.
Nel solco di questa concezione si inserisce Goethe, laddove sbalza il simbolo rispetto all’allegoria, nella sua dimensione di totalità organica in cui l’universale è colto nell’individuale. Ecco, qui ci riagganciamo alla Fotografia.
Quando defunse Valerio Sartorio, fotografo di felice e profonda ispirazione, ne scrissi sul mensile specializzato FotoCult, e tra l’altro citai Tolstoj. Che esorta: “Vuoi essere universale? Parla del tuo villaggio”.
Dal particolare, all’universale. Il metodo induttivo o, macchiavellicamente, il suo speculare contrario. Ma qui non si tratta di un algido metodo: abbiamo a che fare con ardente materiale incarnato.
Così dalla fotografia di un albero in un campo, da una grinza sotto un occhio umano, da un muro sbrecciato esplode un mondo.
Una molteplicità di mondi: a ciascuno il suo.
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Claudio Trezzani
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