In fotografia, scavare

Recuperare.

Dal latino re + caperare (int. di capere).

L’etimologia dunque ci dice: prendere di nuovo.

E’ esattamente ciò che avviene ogniqualvolta il fotografo si accosta ad esempi di archeologia industriale.

Ma il prendere di nuovo – è questa la cosa concettualmente entusiasmante – non avviene meramente attorno una singola istanza.

No, le angolazioni emotivamente possibili sono due:

  • prendere di nuovo nel senso di figurarsi la vita che lì ferveva, protendosi nel tentativo di catturare lo spiritus loci che un tempo ivi albergava.
  • prendere di nuovo relativamente allo scavare.

Scavare?

Sì, qualcosa a che fare sia con la stratificazione che con la latenza.

Stratificazione? Latenza?

Consideriamo – se V’aggrada – la fotografia a corredo di questo brano.

Drone, ritrazione zenitale, tetto di capannone.

Anche l’aria ha i suoi cerripedi.

Incrostazioni e corrosioni, intendo.

Strati si sfaldano, rivelandone altri.

Il disegno si sfaccetta, ergo s’arricchisce.

Onirici disegni dipanansi, novelli percorsi serpeggiando stagliansi.

Ed è qui che dalla stratificazione si passa alla latenza:
ogni strato viene ad assumere un colore.

Che è in nuce e allo stesso tempo in fieri, ovvero una cosa suscettibile sia di sviluppo che di cambiamento.

Il fotografo, allora, riverente s’accosta al lavoro postproduzionale quale strumento di lirica catalizzazione.

Lirica catalizzazione?

Sì, permette agli strumenti di estrarre cose da cose.

Consente loro una cromatica esplosione, non avulsa ma consequenziale rispetto ai valori di partenza.

Non cose aggiunte: cose cui si è tributato vivido omaggio, liberando loro potere.

Ecco, scavare in fotografia.

Portare alla luce, sbalzare ciò che sotterraneo arde.

 

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Claudio Trezzani

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