Le Andria Johnson.
Sapore di sud nel prefisso.
Di antica Grecia nel name.
Di passata schiavitù nel surname (ai primi deportati affrancati si tendeva attribuire i cognomi dei presidenti americani, e l’abitudine durò).
È conscia la meravigliosa cantante di soul statunitense che l’etimologia ellenica del suo nome rimanda a qualcosa di mascolino?
Ella di virile ha la vibrante torrenzialità dei suoi assoli.
E verso la fine piange sempre un poco, il che dice molto della sua intensità espressiva.
Ecco, intensità espressiva.
Sapete, mi ero già diffuso in questa rubrica sul rapporto intercorrente tra un filmato e l’estrapolazione a posteriori di suoi singoli fotogrammi.
Qui però si travalica il nesso.
Perché per definizione la musica è fruibile di sola sonorità.
La componente visiva arricchisce, ma può anche impoverire diluendo, se una chiassosità iconografica storna l’ attenzione dal linguaggio fonico.
Poi però ci sono i singoli momenti.
Il video scorre fluido per sua natura intrinseca.
In un preciso momento – con guizzo luciferino , dionisiaco e mozartiano ad un tempo – appare la Sublime Smorfia, quella illustrata dallo screenshot (tratta dal programma televisivo d’oltreoceano Sunday Best) a corredo di questo brano.
Non potevamo vedere, se stavamo delibando tramite CD.
Anche vedendo, la sequenza poteva scorrerci addosso come un continuum di cui non desideravamo censure.
Sinchè non è arrivata la Sublime Smorfia.
Il tempo si ferma, di fronte a cotale lampo.
Il genere non è denominato soul per mera retorica.
Sgorga un mondo, dalla Sublime Smorfia.
Ed è la Fotografia a renderlo tangibile.
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Claudio Trezzani
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