Il Witness Protection Act & la Fotografia

Siete a Fort Carson, in Colorado? Vi ci hanno portato un paio di USA marshall, sotto l’egida del Witness Protection Act? Si? Bene, vi aspetta una operazione chirurgica per modificare i connotati, onde non essere rintracciati dai criminali che con la Vostra deposizione avete contribuito ad incarcerare. Come dite, non avete alcuna intenzione di modificare i lineamenti?

Be’, purtroppo non è così semplice, quando parliamo di fotografia. Il primo strale mi corre obbligo scagliare verso i così appellati vloggers, abusata crasi che contiene le effigi di tutti coloro che camminano parlando, con il dispositivo di ritrazione brandito verso di loro.

Ecco, appunto, queste loro effigi sono lontane dalla fedeltà all’originale. Perché? Si da il ricorrente caso che essi utilizzano una action camera dotata di obiettivo fish eye, per giunta posizionata a distanza ravvicinata.

Quando fu commercializzata una fotocamera a brandizione diretta meccanicamente stabilizzata equipaggiata con un obiettivo rettilineare mi auguravo questo malcostume si ridimensionasse, ma ciò si sta verificando con dannosa lentezza. E comunque si tratta sempre di focali grandangolari.

Voi che state leggendo sapete che per minimizzare la distorsione delle fattezze umane è opportuno fare ricorso a moderati teleobiettivi. Moderati, poiché al crescere della focale si registra un graduale arrotondamento dell’ovale facciale. Ma sono sacri, i nostri lineamenti?

Il filosofo Galimberti asserisce che la nostra identità è data dal giudizio altrui. Non sono d’accordo, ritenendo che una costruzione esogena – la percezione altrui – non esaurisca la descrizione individuale. E i lineamenti fanno parte della nostra identità? Organizzeremo una gita a Fort Carson per intervistare i testimoni avviati a nuova mutata vita. Per intanto – e con il greco Esiodo – mi sento di osservare che siano piuttosto “le opere e i giorni” a connotare una persona Se stanno così le cose, quanto lontano da blasfemia è il giocare con i lineamenti?

Nel precedente articolo mi ero occupato – sempre relativamente ai ritratti – dell’amministrazione del colore, con riferimento all’incarnato. Ne emergeva una considerazione della relatività.

Un primo esperimento che possiamo fare è illustrato da una delle due fotografie a corredo di questo brano, quella a colori: il volto al centro è quello originale, mentre i due laterali sono il frutto dell’unione di due parti sinistre e di due parti destre. Converrete che il volto più realistico è il reale, in quanto siamo consci di non essere del tutto simmetrici.

Così il carattere, spogliato di accezione valoriale e caricato di significato peculiare, consiste nell’unicità insita nell’imperfezione, ovvero nella deroga alla regolarità. Ulteriori variazioni?

Potremmo farci dare un pugno sul naso: otterremo così una modifica “naturale” del tratto. Ma potremmo anche spingerci oltre, ed ecco che la variazione sarebbe caricata di un segno concettuale, oltre che grafico. Siamo arrivati alla seconda fotografia, quella in scala di grigi.

Dietro vi è l’autore di questo articolo, mentre davanti… be’, sono sempre io. Naso, labbra, carnagione: sono io in versione “africana”. Del resto gli antropologi dicono che proprio da lì veniamo, ceppualmente.

La postproduzione diviene così tributo ecumenico, omaggio all’indifferenziata dignità della condizione umana, che del tutto astrae e prescinde dal dato somatico. Tributo che si fa auspicio: dopo un presidente afroamericano, un pontefice donna.

Non è una celia.

Piuttosto un invito a non permanere, nel pensiero, schiavi dell’esistente.

 

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Claudio Trezzani

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