Lo sappiamo: in pittura (tra le immagini a corredo di questo brano, quella eccellente a firma Daniel Bulimar Henciu) l’artista è il deux ex machina, l’artifex maximus dei colori, potendoli amministrare a suo genio.
E in fotografia?
Eccoci approdati al triplo stadio, quello che titola il presente articolo.
La progressione è ascendente, per come sigla crescenti livelli di partecipazione del ritrattore.
Primo stadio, o della mera esclusiva proposizione.
Mera esclusiva proposizione?
Li si trova, i colori, li si propone così come sono, facendone il contenuto totale dell’inquadratura.
Margini d’intervento, in questo stadio?
I soliti a disposizione di noi pigiatori di pulsanti: il taglio, l’angolazione, il tono.
Con un misto di autoindulgenza e di orgoglio, il fatto stesso di aver considerato il soggetto meritevole d’attenzione.
E il secondo stadio?
E’ quando fa il suo ingresso il dialogo.
Il fotografo giustappone la ripresa statica di un manufatto colorato con la sua interazione verso un elemento dinamico.
Nel caso di specie, l’autobus che transita.
Sino a qui ci siamo occupati di soggetti che rimandano direttamente a parti espressivamente intenzionali, graffiti piuttosto che dipinti.
Ma quand’è che il fotografo può dirsi orchestratore dei colori, con un gesto ad un tempo attivo e rispettoso del contesto?
E’ questo il terzo stadio, mirabilmente incarnato da Sara Bahari.
Sara è fedele allo scenario, ovvero ai colori che il costruttore ha scelto e realizzato.
Ma Sara può chiamare una modella, e indurla vestite un determinato abito.
Che esattamente ricalca la cromia delle imposte.
La sinfonia, ovviamente, continua con la postura e la distribuzione dei pesi.
Felici entrambi, perché convincentemente organici ad una visione d’insieme.
Già, visione d’insieme.
E’ questo che fa la Fotografia, quando l’esito è alto: organizzare un canto, farlo suonare, danzare, parlare.
E’ l’affascinante dicotomia, polarizzazione del fare fotografando: fedeli nei secoli al reale, ma allo stesso tempo ad essi attivamente partecipi.
E così si arriva al binomio.
Non rinnegare, ma arricchire.
Il fotografo non può essere aprioristicamente verista o idealista, come in letteratura.
Né pro o contro la scuola di Posillipo, come in pittura.
E non fautore o detrattore di Puccini, come in musica.
Non rinnegare ma arricchire, dicevo.
In un verbo, sentire.
Sentir desiderando, agir sospirando.
Sì, sospirando.
Essere attraversati dalla sindrome di Stendhal eppur governandola, insomma.
Noi abbiamo quello che c’è, non altro.
Amarlo, è sublimarlo.
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Claudio Trezzani
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