Il torcicollo

Il fenomeno s’offre da tempo alla generale analisi.

S’offre e … soffre.

La società ne soffre, anche se pare non avvedersene.

È da un po’ che osservo e depreco: non era mai accaduto, nell’ambito della così appellata musica leggera, che i giovani non solo serbassero contezza di motivi in voga presso precedenti generazioni, ma anche ne coltivassero delibazione.

Badate, mi sto riferendo eminentemente ai giovani, non agli studiosi.

Non si tratta d’instaurare una disanima sul valore musicale dei contenuti.

Anzi, preziosa opera è perpetuare le espressioni di ogni epoca.

Piuttosto, la questione è psicosociale.

I giovani per definizione dovrebbero innovare.

Non risponde a loro fisiologia ripiegare.

Ciò fa paventare due cose:

  • assenza di motore interno.
  • disillusione.

Philippe Daverio, parallelamente, incentrava la sua affilata attenzione all’abbigliamento.

Chiariva tutto con un illuminante esempio: ai tempi della dominazione estense su Ferrara, un membro della dinastia rimase imprigionato per decenni.

Alfine liberato, s’aggirava per la città con indosso gli abiti della cattura.

La gente rideva.

Cos’era accaduto?

Che la foggia degli abiti era mutata, spazzando via gli usi precedenti.

Oggi non funziona allo stesso modo, spiegava Daverio.

Coesistono stilemi forgiatisi in epoche diverse, intendeva.

Questo ci conduce alla fotografia accostata a questo brano.

Uno squarcio della Provenza di sessant’anni fa, a firma Elliott Erwitt.

Baschi su infanti, difficile riscontrarne ancora.

Il resto è però replicabile, dunque decontestualizzabile.

A giocare ai simboli, troveremmo pane.

Non mi riferisco alla baguette sul portapacchi.

No, è lo sguardo del bambino.

L’inversione è contrannaturale: lui guarda indietro, l’anziano innanzi.

Pedala, pur nel solco della via tracciata; il supposto nipote si sottrae invece a qualsivoglia progressione.

Usualmente, però, questa fotografia è scaturigine di una differente suggestione.

Non parliamo più di sopravvivenza di brandelli del passato, ma di passato tout court.

Del suo profumo, che è promanato dalla somma dei fattori: non si cerca più il particolare che viaggerà immutato, ma la composizione globale che non può non riferirsi ad un’epoca determinata.

È questo un terreno insidioso: in troppe occasioni una immagine mediocre è stata posteriormente rivalutata giusto perché documenta un “come eravamo”.

Non questa volta.

Elegante, consonante, armonica, di fluida musicalità.

Eppoi struggente, traverso gli occhi che indugiano nell’obiettivo, al contempo confusamente consci di una futura sorte.

Ecco, bando a musica ed abbigliamento, a questo stadio pervenuti.

Danzano segni prosciugati, palpita umanità.

Parla la Fotografia.

 

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Claudio Trezzani

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