Nel precedente articolo scrivevo:
“abbiamo visto cose ad un certo momento apparse pur se vi erano anche prima, a parità del punto d’osservazione. Poi cose all’interno di cose. Indi cose immutate eppur reciprocamente variate. Infine, cose in un inedito universo di segni”.
Si trattava di una progressione dal variare delle condizioni della scenario a parità del punto di osservazione, sino ad approdare ai multiformi esiti che scaturiscono dalla mediazione operata sul visibile dai diversi obiettivi montati su fotocamere.
La faccenda dell’ “inedito universo di segni” era relativa al potere di astrazione della macrofotografia in certi ambiti e con determinate finalità realizzata.
Non era il momento di fornire esempi di questo impiego; lo è ora.
Facciamo un gioco.
Consideriamo la prima fotografia allegata a questo brano.
Dimentichiamo la luna, aggiunta in postproduzione.
Ebbene, cosa c’è la sotto?
Lì, badate, non ho cambiato niente.
Ho semplicemente montato un obiettivo macro sulla mia fotocamera, e ripreso da vicino quello che avevo davanti.
Per sapere cos’è quella roba lì corrugatamente accidentata, come nella Settimana Enigmistica dovrete andare in fondo alla pagina e girare l’articolo all’incontrario.
No, scherzo, ve lo dico subito: è la superficie collosa del coperchio di un barile.
Si, avete letto bene. Questo è, non è stato necessario null’altro che avvicinarsi al manufatto con in mano un dispositivo in grado di ulteriormente “avvicinare” (ingrandire).
Ecco allora il paradosso: il fotografo “non ha fatto niente”, nel senso che si è limitato a riprodurre frontalmente ciò che aveva davanti, eppure questa apparente neutralità è stata scaturigine del disvelamento di un “inedito universo di segni”. Perché sì, non si sarebbe detto che quella roba lì è colla su barile. A quel punto il fotografo “ha fatto qualcosa”: semiresponsabile di quanto si è – imprevedutamente – palesato, ha inserito sull’immagine “oggettiva” un fondale lunare che conferisce all’insieme un sapore alla Salvador Dalì, ma è solo una delle infinite evocazioni possibili.
Veniamo infine alla seconda fotografia qui allegata.
Be’, se nella prima vi era l’imparzialità della riproduzione non manipolata, ma non disgiunta da una certa dose di malizia (sapevo di camminare verso l’astrazione), qui l’impegno è tendenzioso.
Tendenzioso, perché attivo.
Il paradosso diviene ancora più stringente: pur non avendo cambiato nulla all’immagine ottenuta, al momento dello scatto ho operato fisicamente acciocché il visibile suggerisse altro rispetto alla visione statica. Prolungato tempo d’otturazione e studiata rotazione del braccio hanno originato una fotografia difforme dalla contestuale visione dell’occhio (erano fanali di automobili nella notte).
Cosa se ne ricava in sunto?
Che lo stimolante pericolo del travisamento ci aspetta al varco.
Esso bada solo marginalmente a ciò che si fa al momento dello scatto e come. E non soverchiamente si cura se si fa qualcosa dopo oppure no.
Perché la “malizia” – l’azione soggettiva di interpretazione del visibile – passa dal ritrattore al fruitore. E anche qualora il primo abbia profuso un “tendenzioso impegno”, l’occhio e la mente del secondo possono condurre altrove.
Ora che le fotografie si possono immagazzinare in cloud, deve esistere oltre le nuvole un platonico iperuranio ove tutte queste cose confluiscono.
Un iperuranio che contenga l’agitato ribollire di tanti occhi, menti, cuori.
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Claudio Trezzani
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