In “Fotografia, Direzioni, Passaggi” legavo fotografie a letture.
Ma le fotografie possono anche abbinarsi ad eventi.
E capita eventi risultino scollegati dal contenuto delle immagini.
E che la visione sia scaturigine di pensiero esogeno.
O che il pensiero incroci la visione creando un collegamento peregrino sino al momento in cui il legame s’è instaurato.
Qualcosa di non perfettamente coincidente con le proustiane madeleine, ed insomma.
E che suono ed occhio danzino in maniera impreveduta.
E che – lo debbo alla sopraffina azione divulgatrice di Ivalda Palazzi – un ispirato illustratore come Mike Lemanski allo stesso tempo getti ponti e metta ali.
Perché la realtà ruota attorno a noi, e noi afferriamo il flusso in inaspettate guise.
Come le semicrome di Mike non si fermano al segno, ogni cosa anela traslitterare.
Sapete, mi risolsi visitare città o paese assonanti col mio cognome onde appurare se vibrazioni del genius loci mi pervenissero per ancestrale risonanza.
Non successe, ma accadde altro.
Molti anni fa ebbi un malore e all’ospedale verificai ciò che si dice.
Vedere il proprio corpo dall’esterno, quel genere di cose.
Ora, ben sappiamo: tale prestazione non è alla portata del nervo ottico umano.
E dell’angolo di campo, e dello spettro del percepibile per quella via.
Dunque, c’è dell’altro.
Si badi, niente che non – ipotizzo – sia riconducibile a misurazioni.
Solo che la Scienza non possiede ancora gli strumenti per sondare l’oscura area di questa fattispecie dell’altro.
E quell’altro è il sotto e l’attorno, come titolo il presente brano.
Preme, il sotto e l’attorno.
Mimmo Stolfi lo sa.
Cita Walter Benjamin, Mimmo.
Che epistemiologo era, ergo gnoseologo cacciator di psichiche pieghe.
Mimmo spiega che il suo episodico mentore individuava relazione tra fotografia e psicanalisi.
Che essa possa rivestire affiorante catalizzazione dell’inconscio.
Che una immagine non “appartenuta” sia scaturigine di una emersione.
Quella sì, appartenuta.
Per Mimmo il fotografo Gregory Crewdson lo sa fare.
Credo anch’io.
Attesa, valigia, automobile.
E pioggia, fili, balaustre.
Quella, balaustra.
Carnale per scabrità di legno e calore di retrostante luce.
L’automobile m’evoca rochi brontolii d’un 8 V aste, bilanceri, e basamento in ghisa.
Rumore più vagheggiato che vissuto, ma celluloidicamente intraveduto.
Anche l’automobile di Ernst Haas – qui la sopraffina divulgatrice è Annie Josephine Giraut – partecipa alla sinfonia, letteralmente.
Rombi di scarico, rotolamento, sinanco corrugazioni e fumigazioni.
E siluettate sagome che reclamano estraneità senza potervi approdare.
Già, estraneità.
Sapete, ho un ricordo di quando avevo quattro anni.
Atrio condominiale irrorato da crespuscolare atrio.
Distintamente rimembro la frase – solenne – che mi si compose nella mente: è finita la liberta.
Conscio che all’indomani sarei stato sottoposto alla coatta irreggimentazione dell’asilo.
Una villa, anni dopo.
Nulla a che vedere colla cogitazione che si formò entro il mio cranio.
Pensai: non è appropriato che ogni volta che debbo fare un concerto sia dilaniato come Gesù nell’Orto Degli Ulivi.
C’entrava niente, questa considerazione.
Solo, la vissi mentre passavo accanto a quella villa.
Ancora più tardi, eppur remotamente dall’oggi.
Castello piemontese, ancora musica.
Mi dissi: è finita.
Intesi: basta includentemente spaziare col suonare, il mio destino è altro.
L’atrio, la villa, il castello.
Inconsapevoli spettatori del mio pensiero.
Da allora, indissolubilmente ad esso avvinghiati.
Così, il sotto e l’attorno premono, dicevo.
Annessioni afferiscono al caso.
Da quel momento, epperò, non sono più caso.
Il sotto e l’attorno premono, dicevo.
La Fotografia è l’agente ed il reagente.
Non sappiamo da dove, ignoriamo dove.
Ma il diapason sua frequenza abbrucia.
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Claudio Trezzani
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