Il pittore Adolfo Tommasi nacque nel 1851.
Nel suo dipinto qui riprodotto vediamo cavi della luce svettare fieramente.
Già, fieramente.
Adesso invece li si considera una iattura.
Vi era entusiasmo per il progredire della tecnica.
I futuristi arriveranno ad elogiare le “officine appese alle nuvole pei loro contorti fumi”, e a vantare il primato di una automobile sulla Vittoria di Samotracia.
Poi ci si avvide del prezzo da pagare.
Adolfo Tommasi cantò la Maremma.
L’indaffarata contadina fa nello scenario un energetico paio con la via del progresso, quello che viaggia sui crepitanti fili.
Oggi a noi fotografi i fili e i pali suscitano repulsione.
Niente da eccepire sui vantaggi della tecnica, tutt’altro.
È che nuociono gravemente alla pulizia formale.
Seconda immagine a corredo di questo brano.
Ancora campagnola, ma la pianura è quella padana.
Canale.
L’impronta di Leonardo.
Il cui genio si divideva tra astrazione e prassi.
Opere sublimi dell’intelletto volto alla poesia, e superbe soluzioni pratiche.
Canale.
Una agricoltura non bucolica, ma volta all’efficienza irrigatoria.
Solo che noi fotografi vogliamo anche abbandonarci all’idillio.
Riportare cose non solo per quello che sono, ma per ciò che evocano.
E quanto alla fedeltà?
Sapete, giorni fa rimiravo l’opera di un fiammingo.
Ancora una contadina, ma curva a raccogliere.
Con davanti un tronco a spezzarle il busto.
Diamine, sei pittore, puoi inventare, ed invece lasci che un tronco interferisca con la visione di una figura.
Dunque, pittori che potrebbero “aggiustare” ma non lo fanno, fotografi che…
Come dice Berengo, il DNA del materiale che trattiamo è di matrice documentaria.
Se gli stessi pittori non modificano ciò che hanno davanti, figuriamoci se noi dovremmo.
Ma la percezione serpeggia.
Si nutre della storia personale d’ognuno.
Che è figlia del contesto sociostorico.
Ma il desiderio si libra indomito.
Io non ho tolto i cavi aerei in fondo al canale.
Ma ho sofferto per questo.
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Claudio Trezzani
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