Il raggio & l’estensione

Nel mondo del cinema le competenze sono parcellizzate. Come vi è chi mette a fuoco, esiste la figura del colorista. Qual’è il suo ruolo?

A questa figura professionale sono demandati due stadi di intervento. Mi rincresce dover ricorrere ad espressioni proprie di altro idioma, ma qui riveste carattere di necessità, per come i lemmi sono stati coniati ad hoc: il colorista nel cinema si occupa di color correction e color grading. Ciascun buon colorista sa che il confine tra i due livelli è sfumato. Vediamo di cosa si tratta.

La color correction essenzialmente consiste nella rimozione delle così appellate “dominanti”: la soverchiante preminenza di una tonalità in uno scenario in cui l’occhio umano non percepiva la stessa pervasività. Ciò però è solo un lavoro preparatorio, propedeutico alla fase successiva, quella del color grading. In essa il colorista opera scelte stilistiche.

Si ponga particolare attenzione al summentovato aggettivo: il termine “stilistico” in questo caso non attiene meramente ad un taglio formale dato all’immagine. Lo stile, in questa accezione, attinge ad un ambito più profondo, riguardando il carattere che si intende conferire al flusso dialettico, l’impronta  personale  che discende  da una visione  individuale.

Esistono direttori della fotografia che si caratterizzano per impostazioni che – oltre a consentire a terzi peculiare facoltà di individuazione – corrispondono a determinati tagli emotivi attribuiti alla narrazione. In accordo con la concezione dei registi, l’insieme si traduce nella veicolazione di una lettura che non è secondaria per impatto ad altre soluzioni disponibili alla determinazione del linguaggio, quali i tempi delle sequenze o la scelta delle inquadrature.

All’interno della troupe di quella che considero la migliore società di produzione al mondo di filmati realizzati con droni (la russa Timelab) il colorista persegue pervicacemente – al punto che esso è divenuto il precipuo fattore caratterizzante delle loro opere – il popolare accorgimento tonale “teil orange”. Intuibilmente, proprio perché ciascuna scelta reca in sé le stimmate di una precisa destinazione, se è vero che taluni soggetti ne fanno uso unisemantico sino a costituire il rituale “marchio di fabbrica”, è altrettanto verificabile che per corrispondere alla sua finalità il color grading debba non essere alieno da intrinseca duttilità.

Questa esigenza di duttilità ci conduce al cuore della questione. Ho intitolato questo articolo “il raggio e l’estensione” proprio perché la possibilità di intraprendere strade diverse concerne il nucleo stesso della filosofia fotografica. I tre esempi a corredo di questo brano contribuiscono a dipanare la matassa. Nella prima immagine vediamo un campanile che l’illuminazione artificiale notturna rende connotato da una tonalità magenta. Dobbiamo considerare questa tonalità una dominante da sopprimere? O piuttosto il contesto ci porta a concludere che la riproduzione del magenta è fedele a ciò che l’occhio umano poteva scorgere in quel momento?

E del resto: convinti di “bilanciare il bianco”, se eliminiamo il sapore giallastro da parti fatte oggetto di una illuminazione ad incandescenza abbiamo ripristinato il “reale” o piuttosto abbiamo semplicemente riportato ciò che contingentemente rappresentava la percezione umanamente possibile? In ultima analisi: cosa è “naturale”?

Ogni veduta è condizionata sia dal cangiante apporto della luce sia dalla struttura dell’apparato visivo, sia esso umano od animale. In questo contesto, concetti come “caldo” e “freddo” più che fattori da calibrare in gradi Kelvin costituiscono preziosi elementi a disposizione del linguaggio. Ed anche il rapporto tra i colori può essere oggetto ad interpretazione che risponde a funzionalità espressive in parte disgiunte fa ciò che convenzionalmente viene definito “equilibrio”.

Nella seconda mia fotografia qui riportata vediamo una sommaria (nel senso di governata da presupposti endogeni – riformulati in base alla specifica situazione – piuttosto che esogeni, ovvero rispondenti ad una indifferenziata applicazione di canoni prefissati) applicazione del già menzionato procedimento “teil orange”.

Tornando al concetto di equilibrio, in questo caso assistiamo ad una apparente dicotomia: se da un lato la contrapposizione marcata della coppia di colori blu ed arancio corrisponde ad un abbinamento ben codificato dalla pittura perché poggiante su presupposti tanto di “fisica percettiva” (impatto cerebroelaboratorio) quanto di “materica evidenza” (attenendo alle diverse reazioni scaturite dal mischiare od accostare i relativi pigmenti), tale abbinamento purtuttavia si situa in in ambito percepito quale “innaturale” se correlato alla visione originata sul posto.

Nella terza mia fotografia a corredo di questo articolo facciamo simultaneamente un passo indietro ed uno avanti. Uno indietro perché rinunziamo alla facoltà di giostrare con le possibilità combinatorie delle varie cromie. Uno avanti poiché se palesiamo un certo grado di “rispetto” per i colori che ciascuno poteva vedere recandosi presso il luogo, d’altro canto sottoponiamo a leggero trattamento parametri quali la saturazione, la luminanza, il contrasto.

È pertanto lecito  oppure no intervenire su saturazione, luminanza, contrasto? Si ruota dunque sempre attorno al concetto di “naturalità”. Concetto che si può afferrare ma non raggiungere. Afferrare in quanto corrisponde ad una categoria mentalmente codificabile. Raggiungere in quanto nella pratica applicazione ciò costituisce una utopia.

Abbiamo visto in questo brano scorrere sostantivi quali realtà, naturalità, equilibrio, rapporti.

Sarebbe fuorviante considerare ciascuno d’essi quale obiettivo da porsi tout court: anzi, proprio il perseguimento acritico di tali istanze può essere ostativo all’ottenimento di una estetica che nasca da una chiara consapevolezza di mezzi, scopi e risultati.

Un mondo non immemore dei presupposti, ma orientato all’espressione.

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