Quinto articolo di serie numerale, che tratta la progressiva incidenza dell’intervento del fotografo sulla scena prima dello scatto. Nel presente caso il fotografo non si limita ad influenzare il contenuto dell’immagine in parte predisponendolo, ma ne diviene parte attiva.
Si è così passati da una situazione di condizionamento ad una di determinazione. Non vi è più un fattore addizionale posto in essere prima per partecipare al durante, ma è il durante stesso che è diretta espressione del fotografo. Configura un conflitto di interessi questa coincidenza tra ritraente e ritratto?
Ho già ricevuto una sanzione sia da parte della Consob che da parte dell’IVASS, quale corollario di una class action promossa da un consorzio di azionisti del Claudio Trezzani Ritraente versus la controparte rappresentata dagli stakeholders del Claudio Trezzani Ritratto. Scherzi a parte, il problema si pone.
Meglio: la realtà si pone. Quella dell’autoritratto, intendo. La pittura è nei secoli pregna di inserzioni furtive o palesi dell’autore, anche tramite virtuosismi tecnici. In fotografia, l’affinamento del mezzo ha comportato un incremento del grado di consapevolezza, pur se in un senso ristretto del termine. Mi sto riferendo al così appellato “selfie”: come sapete designa un autoritratto in cui, tramite schermo, l’autore/soggetto è conscio non solo dell’inquadratura ma anche della propria espressione.
Diviene una Alice Bifronte, ed insomma: salta dentro lo specchio ma al contempo ne rimane fuori. Triplo salto mortale: da esterno ad interno rispetto all’immagine; da artefice terzo ad artefice primo; da controllore a controllato/controllante. Troppo? Il lemma inglese “self” oltre al significato di autocoscienza ha tra le accezioni un viraggio semantico verso l’egocentrismo
Qualcuno attribuisce al poeta Guido Ceronetti il primigenio conio dell’espressione “seghe mentali”, ma il concetto può essere anche esplicitato nella definizione di “autoreferenzialità”. Si però sicuri che il Dio Narciso debba per forza annegare cadendo nel mitologico laghetto? Oscar Wilde lo escluderebbe. Possiamo poi chiedere a Marcello Mastroianni, il quale affermava che aveva gradatamente imparato a farsi accarezzare dall’obiettivo cinematografico. Ma chi accarezza chi?
È una domanda pertinente in fotografia, ma meno rilevante se si bada al risultato finale: il soggetto della ritrazione può essere influenzato dall’atteggiamento del fotografo, se persona diversa da sè, ma anche nel caso di un autoritratto – assenza di condizionamento umano esterno – non può che attingere al suo bagaglio interiore, nel mostrarsi.
Poc’anzi parlavo di un senso ristretto dell’aumentato grado di consapevolezza, a proposito della facoltà di vedersi al momento dello scatto mercé la peculiarità tecnica dei dispositivi atti a realizzare un “selfie”. Senso ristretto poiché in realtà l’autoverifica dell’espressione contemporanea allo scatto consente una possibilità di “atteggiarsi” – assumere l’espressione voluta – che non rema a favore della “naturalezza”: l’intenzione prevarica la coglizione. Ecco allora un autoritratto -quello a corredo di questo brano – che prescinde da schermi digitali di controllo.
L’autore ha collocato su stativo a propaggini distese la sua Mamiya medio formato a pellicola caricata con Kodak Portra 160 ASA, ha prefocheggiato, si è coricato nel prato ed ha atteso che il meccanico autoscatto facesse il suo rumoroso corso.
Ed è ancora lì a scrutare Voi.
Avido di vita, a contemplare quella che pullula di fronte a lui, anziché quella racchiusa nello scatto.
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