Avercela in casa.
No, non è una cosa sessuale.
Avercela in casa la raffigurazione.
Pittorica, ma potrebbe anche trattarsi di un diverso stimolo visivo.
Ecco, stimolo visivo.
Un quadro, un colle, un albero.
È lì sul muro, a portata di quotidiana frequentazione.
Come le fotografie di Gianni Berengo Gardin che Ryuichi Watanabe ha appeso ad una sua parete.
Oppure accostarsi alla finestra, sempre quella.
Riscontrare che un tetto che da lì si scorge assomiglia all’eliografia di Nièpce.
Ecco, assomigliare.
Ciò che si guarda è, se non è una evocazione.
Evocazione?
Sì, una cosa fatta per indicarne un’altra.
Pitture, sculture, fotografie.
Anche fotografie?
Tutte cose sono, ma alcune anche altro.
Il parto di un artista può essere tela, pigmento, marmo.
Ma è anche altro perché si vuole il rimiratore impieghi la stessa immaginazione che l’artefice ha esercitato.
Immaginazione che contiene un coacervo di suggestioni.
Sì, un coacervo di suggestioni.
Chi guarda l’opera lo fa dopo aver vissuto altro.
Le cose che ha in casa.
Quelle che vede dalla finestra.
Erraticamente, quelle in cui s’imbatte fuori.
Le prime e le seconde ricorrentemente.
Le terze sporadicamente, ma con impreveduta intensità.
Tutto ciò scava.
Scavando, s’imprime.
Questo il leggiadro gravame, pungesseci vaghezza ossimorizzare.
Questo per dire: non siamo mai liberi quando vediamo cose, e per fortuna che non lo siamo.
Intrisi come siamo di progressitudini, non possiamo non stabilire relazioni.
Relazioni che vibrano per assonanza.
Tela pigmento marmo, dicevo.
Ma anche carta o schermo.
Sì, intendo accumunare il fenomeno alla prassi fotografica.
Come dite, la fotografia è neutra perché è la macchina che fa, essa non può interpretare e dunque veicolare intenzioni che presuppongono la summentovato evocazione?
Certo, sì, mostra ció che l’obiettivo vede, non l’interna volontà di mano che brandisce intinto bastoncino.
Ma siamo sicuri che la riproduzione è scevra da mediazioni che esulino dal meccanico trattamento?
Già, il meccanico trattamento.
Torniamo a un quadro un colle un albero, se V’aggrada.
Tanti di noi hanno in casa qualcosa del genere.
Se l’autore è antico o di scuola antica capace pure le proporzioni siano volutamente modificate.
Uomo grande come colle, donna più grande di casa.
La fotografia no, noi quelle brutte cose non le facciamo.
E però, ci capita andare in collina.
Issare su stativo un mostruoso teleobiettivo.
Magari catadiottrico, magari con un limitato potere risolvente.
Tornati a casa, vedete in grande cosa era successo quando la tendina s’era dischiusa.
Marcata compressione dei piani, quell’avvallamento pare incollato alla pianta.
Poi si tratta d’ottimizzare contrasti e cromie, muovete cursori come il pittore il pennello.
E la definizione?
Già, la definizione.
Si può essere pixel peeping, ma si può esserlo non sempre.
Stavolta, no.
Perché il minor dettaglio può cantar poesia.
E considerare: quell’albero lì che ho fotografato è come quello che qualcuno ha dipinto e collocato entro mia casa.
Certo – con buona pace di Carducci e Gadda nell’usare il lemma – io pitto, non dipingo.
Ma il sentire si trasfonde quando consuetudine determina progressiva ingestione.
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Claudio Trezzani
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