Il latino al servizio della postproduzione

Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit.

Dosis sola facit, ut venenum non fit.

Insomma, la faccenda che il troppo storpia. Vale per le medicine, il vino, la… postproduzione fotografica.

Volete allora sapere qual’è il numero massimo di fotografie che è sensato trattare al computer in una singola sessione?

 

Se accostate l’orecchio alle mie labbra, tra poco ve lo sussurrerò. Prima consideriamo questo: tempo fa in Unione Sovietica avevano studiato la curva di attenzione degli studenti. Soppesando il risultato, avevano deciso: un quarto d’ora di corsa ogni tre quarti d’ora di lezione.

L’aneddoto serve a sottolineare come la postproduzione fotografica sia impegnativa e delicata, abbisognando di una mente fresca. E il numero massimo, allora? Tenetevi forte: una sola foto per volta. Magari facendo come me: dopo essermi coricato prestissimo (abitudine contratta in conseguenza dei viaggi fotografici) mi sveglio nel cuore della notte perfettamente riposato. Nella assoluta quiete generale, accendo il monitor da 27 pollici con una calibrazione adatta all’oscurità, e mi accingo all’arduo cimento.

Anche per una immagine non fatta oggetto di alcun intervento di sapore grafico, vi è tutto un mondo che si agita.

Questione di millimetri nella scelta dell’inquadratura finale, qualora si reputi necessario intervenire su questo parametro. E “morire dietro” la regolazione fine – non lo stravolgimento – di una infinità di comandi.

Cosa che richiede la massima concentrazione, che giocoforza non può prolungarsi indefinitamente. Con la cosiddetta camera chiara, possiamo trasformarci in chirurghi nella sala operatoria.

Del resto in un diverso ambito, quello della postproduzione di immagini fine art composite che prevede l’inserzione di elementi esterni, accade che alcuni artisti tengano aperto lo stesso file per mesi.

Consideriamo ora il caso opposto. Vi è un luogo nella città ove risiedo ove in gennaio si può reperire una certa qualità di luce radente. In quel periodo e solo per una porzione di spazio ristretta opero preordinate scelte manuali di bilanciamento del bianco, tempo d’otturazione, diaframma, sensibilità del sensore. Al cospetto di persone che transitano, realizzo sessioni.

Giunto a casa, mi trovo con del materiale per così dire già impostato. Cosa rimane da fare, dunque? Gioiosamente affrancato da altre incombenze, tutta la mia attenzione può incentrarsi sul primo aspetto che prima menzionavo: l’inquadratura. Così, trepidante come se in procinto di disinnescare una bomba, solennemente medito prima di escludere anche un solo millimetro, come accennavo.

Oggidì possiamo avvalerci di strumenti di notevole potenza e duttilità, che ci elargiscono delle impagabili possibilità espressive. Servirsene abbondantemente non è in contraddizione con una parcità di intenzioni ed esiti: come detto, si tratta di ponderare approfonditamente regolazioni fini, che – pur numerose – possono comportare variazioni non vistose rispetto alle condizioni in cui l’immagine si trovava prima della chirurgica operazione.

Un “more is less” all’interno del rituale “less is more”, possiamo con  solo apparente paradosso enunciare.

 

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