Sud del Perù.
Altipiano di Nazca.
Portentose figure s’ergono – giacciono, se siete creature terrestri – in mezzo al deserto.
Noi lo sappiamo dal 1939.
Loro, gli esponenti di una mirabile civiltà preincaica, le realizzarono millecinquecento anni fa.
Lignano Sabbiadoro.
Nomen/Omen, piacevolmente.
Ma navigando su ariose distese di sabbia il drone all’improvviso è colto da un trasalimento.
Mi viene a riferire il motivo del suo turbamento.
Un cigno, in acqua.
Un cigno grosso come un palazzo e dello stesso materiale, in acqua.
Anch’io non lo sapevo.
Terrazza a mare, credevo.
Le implicazioni metacognitive, a tra poco.
Ora profittiamo del fatto che il volatile non s’è ancora alzato in volo.
Prima fotografia a corredo di questo brano.
Il volatile nel suo esteso sviluppo, così si è rivelato.
Seconda fotografia.
Tra disinganno e rapimento, ma prevale quest’ultima emozione.
Perché non sappiamo se è ancora cigno o no.
Quel che proviamo è il piacere al cospetto di una sbalzata essenzialità.
Potente perché prosciugata.
Due soli colori.
L’uno disegna, l’altro riposa.
La purezza della pulizia.
Terza fotografia.
Forme emergono dalla neritudine.
Non vi è più velleità tridimensionale.
È una matita a tracciare.
Dispone cose.
Le lascia libere e coese ad un tempo.
Ecco, il tempo.
Non c’è il brivido lungo del Perù.
Il drone si è sì emozionato, ma non è latore di una abbacinante illuminazione.
Epperò riconduce a comune – immediata – esperienza ciò che il progettista aveva immaginato ma che a noi inalati – terricoli – non è dato assaporare in pienezza.
Protesi umana fonte inesausta di riparametrazioni, il drone.
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Claudio Trezzani
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