Il drone vola, indaga, cerca soluzioni.
Soluzioni a problemi intricati, non di rado.
Individua una piattaforma d’atterraggio su di uno specchio d’acqua.
La base della piattaforma – in visione zenitale che riformula il concetto di basso ed alto – è troncata, rettilinea.
Esercita una attrazione irresistibile ed ineludibile.
Non si può non allineare l’immagine a quella base, rendendola parallela ai lati lunghi del fotogramma.
Il drone s’alza un po’, e si fortifica nella scelta: ora si rende conto che anche la sottostante banchina galleggiante
di supporto alle imbarcazioni è orientata allo stesso modo, impossibile sfuggire al destino.
Elevandosi ancor di più vede una cosa che farebbe contento Mao Tse Tung: grande è la confusione sotto il cielo.
Perché – per decenza non vi mostro la fotografia in quota – ora vettori spuntano disordinatamente da ogni dove:
altri pontili, manufatti a riva, cose in acqua, ciascuna diversamente rivolta.
No, non si può non allineare alla base tronca, men che meno rendere inobliqua la cementizia protensione totale.
Cosa brucia, allora, al drone?
Che l’ “H” rossa rimane storta.
A meno che – il drone lo capisce avvicinandosi – non si elimini il resto.
Solo così il simbolo aeronautico disegnato acquisisce il diritto al parallelismo duplice e condiviso.
L’elemento umano a lato conta niente.
Può non esserci, esserci, esserci combinato in ogni suo modo possibile.
Non interferisce: non parla lo stesso linguaggio, non partecipa alla stessa danza dei segni.
Già, i segni.
Qualcuno avesse scritto “raddrizzate l’H in qualsivoglia abbinamento” non avrebbe avuto valore.
Sono segni senza seme, questi qui, cionondimeno succosi: non chiariscono il sembiante, non veicolano significati, non si fanno tramite.
No, essi insistono in purezza.
Prosciugati, chiedono al drone di tracciare il loro muto sonante canto.
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Claudio Trezzani
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