Qui il romanesco giova.
E’ d’ausilio nella misura in cui deride approssimazione.
Sì, il D log de nojantri.
Sapete, il concetto è noto ai videografi, ma solo coloro tra di essi che risultano più avvertiti ne colgono appieno implicazioni.
I fotografi tendono a saperne meno.
I conduttori di droni, generalmente ancora meno.
Ecco perchè il D log è espressione aziendal/pubblicitaria confezionata a misura di sprovveduti.
Sapete, è essenzialmente una questione di profondità di colore.
La quale non può prescindere dal concetto che non è consentito cavar sangue dalle rape.
Segnatamente:
- solo con generosa superficie del supporto sensibile si può avere ricchezza di dati
- soddisfatto il summentovato requisito, la parola passa al codec di minimizzazione della compressione.
Ecco, il punto 2).
Se il punto 1) è un prerequisito, il punto 2) attiene a quanto si è deciso di preservare rispetto a ciò che la camera cattura intrinsecamente.
Ovvero: stabilita l’equivalenza tra sensori piccoli e l’impossibilità di cavar sangue dalle rape, resta da definire lo sweet spot – come gli anglosassoni appellano il punto di convergenza del miglior compromesso attingibile – tra lettura incamerata ed elaborazione passibile d’esportazione.
In altri termini: anche se il sensore è grande, occorre selezionare – ma nei droni non è sempre possibile – una interpretazione – sì, trattasi sempre d’interpretazione – il meno possibile distruttiva dell’informazione “originaria”.
Solo in tale ottica acquisisce senso il discettare di D log, nonchè di 8 o 10 bit.
Chiarito in ulteriore guisa: se il dato di partenza è povero, a nulla vale modificare dopo.
Se s’imposta un D log – un profilo così appellato flat, che dovrebbe garantire non solo una ampia gamma dinamica, ma anche una postproduzionale malleabilità e modularità – occorre che vi sia ricchezza da cui tranne, altrimenti non si fa che peggiorare il risultato.
E quando il sensore è irrimediabilmente piccolo?
Ecco, irrimediabilmente.
La fotografia a corredo di questo brano è stata scattata con il drone Dji Mini 2.
La sua superficie ammonta a 1 / 2,3 pollici, eccioè pochi.
Dunque, il suo trattamento successivo – il cui quantificato esito è esemplificato dall’istogramma riportato a destra dell’immagine – non può prescindere dalla non opulenza del materiale da cui trarre.
E’ una fotografia, questa, dicevo.
Sino ad ora ho parlato di D log relativo al flusso video.
Con una immagine fissa si può, invece, osare di più.
RAW fotografico versus compressione video, eddunque.
Si tratta così di un caso/limite: quanto si può ricavare dal poco.
E no bullshit (come, in modo alquanto volgare, ma semanticamente pregnante affermano gli anglosassoni, sempre loro): non vi è D log che tenga, anche perché – saggiamente, in base alle considerazioni testè espresse – è un profilo non disponibile nel summentovato Dji Mini 2.
Olio di gomito, con ciò intendendo una calibrazione di fino indipendente da preconfezionamenti.
Un caso/limite, come dicevo.
A sottolineare come emergono severi limiti, ma allo stesso tempo s’evidenziano potenzialità in nuce.
In nuce lo dicevano i latini, e noi potremmo tradurre – in senso lato, ponendo attenzione più al senso escatologico che non a quello letterale – con un: chi non risica non rosica.
Eccioè:
- se il sensore non è grande, le ali sono tarpate prima del volo.
- all’interno di tale esiguità, e tuttavia, il lavoro possibile prevede il succitato olio di gomito, ovvero impegno saldato con consapevolezza.
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Claudio Trezzani
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