Il conglomerato & il sé

Semplificando, posso sunteggiare alcuni spunti presenti nei miei due precedenti articoli affermando che riguardavano la presenza nell’inquadratura del sé del fotografo.

Poi vi sono le costruzioni attorno ad un sé.

Già, il sé del fotografo ed un sé ideato.

Si fa presto a dire sé, sia il (attribuito al fotografo) o un (rappresentato dal fotografo).

Gli austriaci si sono scervellati, su questa cosa qui.

Prima di Freud, Kohut ha teorizzato il sé come una entità psichica mossa dall’io e forgiata dal confronto con altri sé.

Kohut o no, suona intuitivo ritenere che in una opera dell’umano ingegno la differenza tra il sé esplicitamente rivelato dall’autore ed un sé frutto di elaborazione artistica la differenza è sfumata.

Se si vede l’autore, si vede l’autore; se si vede una cosa fatta dall’autore, è sempre espressione dell’autore.

Mario Soldati – esempio topico, ma vale per tutti, tanto da spingermi ad affermare che in letteratura tutto è narrativa, persino la saggistica –  traeva molto dalla sua vita, nello scrivere, ma anche non l’avesse fatto la sua personalità sarebbe trapelata traverso la cifra stilistica.

Costruzioni attorno ad un sé, dicevo.

Siamo al conglomerato di Javier Luna.

Si, conglomerato.

Sapete, potrei dilungarmi su suggestive e soggettive analisi e interpretazioni di sapore metaforico.

Dire che il bulbo oculare pare un mondo, i nervi i confini di sua carta politica, il cristallino un vulcano, la pupilla sua eruzione…

Che il frammento d’uomo sovrastato da quel mondo non può sottrarsi alla dimensione universale che ne condiziona i pensieri, e che…

No, basta così.

Basta una parola, conglomerato.

Gìà, conglomerato.

Vuol dire un sacco di cose, conglomerato.

A me basta l’accezione geologica.

Di questa, il granuloso fluire, addensarsi, compattarsi.

Carne è, materia viva.

Carne più carne di quando era carne davvero, mai fosse stata.

Un mirabile esito di Javier.

Ecco, la Fotografia.

Sa farsi lirica scultura, quando può.

E qui, può.

 

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Claudio Trezzani

 

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