Avevo anticipato mi sarei occupato di Iason Kummerfeldt, qui.
È colui che ama la pellicola per la texture.
Che si esprime traverso i formati, dal mezzo al grande.
Ma prima viene una cosa.
Vedete il libro appoggiato sul tavolo?
Certo che sì, ed ora sapete che Iason è hopperiano.
Uno dei dipinti che predilige è quello a corredo di questo brano.
Osservandolo vien da discettare attorno al concetto di plausibilità.
Perché qualcuno potrebbe obiettare: scenari così non esistono nella realtà, eddunque Tu fotografo Iason Kummerfeldt ti puoi pure ispirare a Hopper, ma nelle tue immagini non potrai riprodurre cose così.
Un momento, però.
Hopper effettivamente in una certa fase della sua vita ha abitato in una luminosa casa che da un minuscolo poggio digradava verso la vastità del mare, e una vista interno/esterno come quella che ritrae potrebbe essere stata mutuata dalla sua dimora.
Ma non è questo il punto.
L’immagine in questione si nutre di linee e colori.
Stringendo al muro – questo sì universalmente plausibile – si va verso quel minimalismo che anch’io sovente inseguo e che tuttavia oggidì è oggetto di classificazioni talora pedanti.
Il fatto è che il segno è relativo, la situazione fluida.
Gli strumenti del reale s’offrono ai fruitori e agli elaboratori con gioioso meretricio.
Si concedono a chiunque, eccioè, mostrando la plastica duttilità di un pongo.
Sapete, un altro fotografo ha detto: I make, I don’t take.
Roboante pleonasmo, anche se si riferiva semplicemente al fatto di “pilotare” i soggetti della ritrazione.
Ma un fondo di verità serpeggia: le cose sono lì, pronte al personale uso.
E I fotografi, col taglio, infondono potente – ed aperta – lettura.
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Claudio Trezzani
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