I nodi (in)soluti.

Allineare o rinunciare? E a cosa, allineare?

Sono due dei quesiti che si pongono all’analisi di questa immagine.
È una inquadratura “geometricamente chiassosa”: presenta spinte divergenti ardue da comporre ad armonia.
Naturalmente questa versione è già il frutto di una scelta. Vi è una traccia di pavimentazione che conduce ad una sorta di cavalletto. Essa è parallela ad un manufatto di egual colore presente in prossimità del bordo inferiore dell’immagine. Si è deciso di collocarli perpendicolarmente all’orientamento dell’immagine.
Così facendo si è scelto di porre diagonalmente – ma con un angolo “debole”, la cui frazionalità approssimata non conferisce vigore all’elemento ed al suo rapporto con il tutto – lo scivolo policromo. In tal modo però si è parzialmente dispersa la forza espressiva del componente, che è intrinsecamente potente nella sua marcata vettorialità. In basso abbiamo anche una cupola ludica. La sua zenitale sfericità parrebbe esentarla da istanze direzionali. In realtà la sua suddivisione in trapezi connota un suo rapporto in tal senso con gli altri componenti, e lo sigla nel senso della disarmonia, condividendo ma non coincidendo con la summentovata angolare frazionalità approssimata dello scivolo policromo.
Abbiamo così due aree di debolezza dialogica a detrimento della coralità complessiva. L’albero, poi. In sè stesso rappresenta un universo di potenti spinte a raggiera, nonché di seducenti intrichi a prova di Minotauro. Ma il suo cammino “vitruviano” s’arresta al limite dei suoi confini, non incontrando all’esterno nè relazioni congruenti od almeno convincenti nè una neutralità che rimandi indietro l’attenzione. Vale altresì la pena di sottolineare la semielisa indiziale presenza, lungo il limitare dell’inquadratura, di preoccupanti elementi di disturbo, che avrebbero maggiormente esplicato la loro azione nefasta con una maggiore inclusione nell’inquadratura. Il fotografo ha a sua disposizione mezzi che sono al contempo limiti: in sintesi, può collocare ma non redistribuire.
Valutando valenze e significati che risiedono nell’oggettività letterale dell’elemento considerato e nel suo potenziale astratto, può assegnare pesi – tramite la collocazione inquadratoria, che a sua volta determina dialogo – che modificano sì il loro ruolo specifico, ma non sono in grado di alterare la primigenia distribuzione, sia essa palese o parzializzata da successivo intervento.
Siamo dunque nella condizione di Governo Condizionato, rispetto alla quale la facoltà preventiva è di prendere o lasciare. Ovvero: di volta in volta ci è dato valutare l’opportunità di imbarcarci in una avventura in grado di consentire sbocchi polisemantici, o per converso concludere che le condizioni originali non consentono di condurre il cimento. Ho esperimentato altre versioni di questa immagine, sortendo esiti di differenti sapori. E certamente una massiva elucubrazione in sede postproduzionale può meramente disvelare ciò che possiamo assimilare sia ad un accanimento terapeutico che ad un fallimento chirurgico.
Della serie: dovevi lasciare perdere, l’occasione non valeva la prova. E tuttavia è proficuo non sottacere la circostanza che consentire ad un concetto di assurgere valore assoluto – in questo caso, l’armonia – è lungi dallo svuotare la faretra delle frecce espressive di cui chi interviene dispone, lungi da inibirgli il percorrimento  di altre strade o la considerazione di ulteriori piani. Senza mai dimenticare – consci del margine (ad un tempo sottile ed ampio) del proprio ruolo, ma ancor più del proprio limite – ciò che Archibald MacLeish dichiarava a proposito della scrittura: “a poem should not mean / but be”.

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