Avete un salottino con mobiletti intagliati nel canforo del Giappone, sovrastato da una tenda di satin indiano rosa? Si? Bene: potrete ritrarre soggetti le cui carni “si coloravano dolcemente alla luce artificiosa che la stoffa lasciava filtrare” , tuffandole “in quel tiepido bagno carnacino, profumato dall’aroma di menta che esalava dal legno del mobilio”.
Così (nella traduzione di Fabrizio Ascari, Mondadori 2009/2016) per il duca Jean Floressas des Esseintes, protagonista di “A rebours” di Joris-Karl Huysmans, che Carlo Bo definì “il manuale del perfetto decadente”. Non disponete di siffatto salottino? Non importa. Perché qui ci addentriamo nei meandri di ciò che gli anglosassoni pomposamente denominano “color science”, che scienza non è. Perché, in fotografia, il trattamento dei colore, pur potendo disporre di svariati strumenti, si situa in una dimensione empirica.
Prima però affrontiamo il tema sotto un profilo “etico” (le virgolette sanciscono l’uso relativo dell’aggettivo): è indispensabile restituire i colori “originali” di una scena? Ciò è certamente necessario in un catalogo di prodotti, nei casi in cui il colore sia parte essenziale dell’offerta commerciale. E per le carnagioni umane?
Si potrebbe argomentare che la cura di una supposta fedeltà cromatica nell’incarnato sia parimenti ineludibile, per il rispetto dovuto alla condizione umana e per la particolare sensibilità del cervello/occhio umano nel percepire congruenza od incongruenza rispetto alla gamma di tonalità che si riscontra nelle epidermidi.
Si tende cioè a tollerare od apprezzare viraggi su oggetti come frutto di scelta, mentre su soggetti umani si considera un tradimento del plausibile un colore che si interpreta come innaturale. La questione tuttavia è variegata.
Come sappiamo, un colore è percepito tramite l’azione della luce che l’illumina. La quale, ca va sans dire, varia. Appurato questo ruolo di mediazione della luce – importante anche concettualmente, perché introduce un fattore di relatività – come operare acciocché la fotografia serbi la percezione che si era verificata “dal vivo”?
Tralasciamo il percorrimemento dell’intera filiera (sino alla stampa), e concentriamoci su di una prima fruizione a monitor (che supporremo correttamente calibrato) di un file consapevolmente profilato. Bene, siamo entrati nello spazio dell’empirismo, come poc’anzi dichiaravo. Vi sono metodi che assegnano prefissate quote percentuali nei canali/colore a seconda della tipologia umana (caucasica, africana, etc).
Ma cosa succede se un soggetto di pelle chiara si abbronza? Di quanti punti dovremo variare la presenza di un singolo colore?
C’é poi un metodo che trovo molto divertente, seppur laborioso, che prevede una sorta di equalizzazione numerica degli estremi di banda nei tre canali, con il quale si provvede anche al contrasto, ma rispetto al quale occorre porre attenzione tanto ai valori di luminosità quanto a quelli di “neutralità” (dolce chimera).
Non dimentichiamo poi il ricorso ad una tavola di colori “tarati” da includere nell’inquadratura.
Oppure possiamo avvalerci di una procedura che in pochi passaggi assicurerebbe l’eliminazione di “dominanti”. Ecco dunque un altro punto cruciale. Posto di aver ottenuto la così appellata “neutralità”, abbiamo corrisposto a ciò che viene definita “color correction”, la soppressione di “errori” nella riproduzione dei colori. Ma – soprattutto nel cinema – questa fase è considerata propedeutica al passaggio successivo, quello del “color grading”. Con questa locuzione si intende la scelta espressiva – dunque, di linguaggio – operata da una figura professionale a ciò espressamente vocata, quella del “colorista”. Si noti: il confine tra color correction e color grading è sfumato, non caratterizzato da una netta demarcazione.
D’altro canto, come anticipato, ci si deve misurare con la percezione umana dell’umano, che si segnala per una intensa partecipazione emotivo/individuatoria. Consideriamo però un tipico espediente stilistico oggi in voga, il cosiddetto “teal orange”. Esso si basa sulla contrapposizione dei due colori completari arancio/blu, che a sua volta poggia su presupposti fisici ed ottici.
Come risultato, avremo una carnagione umana dai toni marcatamente caldi. Scelta accettabile, qualora non corrispondente alla percezione che si aveva ad occhio nudo al momento della ritrazione?
Si, se si considera congruente il concetto di “temperatura emotiva”: sottolineare con una scelta cromatica quella che gli anglosassoni con espressione calzante definiscono “mood”, ovvero la connotazione psicologica dell’azione. Esistono poi casi “misti” già in fase preritrattoria.
Pensiamo ad esempio ad una figura umana vicino ad una finestra. Può accadere che una porzione d’essa – poniamo, una mano – cada in una situazione illuminatoria leggermente diversa.
Non sto parlando della presenza di un faretto direzionale dotato di gelatina colorata: semplicemente di una influenza leggermente maggiore esercitata dalla luce esterna. Registreremo allora una tonalità con un pizzico di rosso in più rispetto al resto dell’epidermide. Che fare, correggere localmente o no?
Ne avremmo tutti gli strumenti post riproduttori, taluni assai sofisticati. Intervenire o no, in questa circostanza, considero passibile di assegnazione al singolo intendimento. Ma per chi voglia sottrarsi in guisa manichea a questo dubbio drammaticamente shakespeariano vi è il rimedio della scala di grigi?
Non completamente: “sotto” la veste monocromatica è sempre possibile ravvisare il rapporto tonale e/o un’eventuale intervento di filtrazione, sia esso avvenuto in fase ritrattoria o posteriore.
Non è dunque possibile districarsi in questo ginepraio?
La risposta risiede nella consapevolezza di intenti, mezzi ed esiti.
Occorre dirsi cosa si vuole, perché, e come farlo.
È un bilanciamento arduo ma affascinante tra le ragioni della plausibilità e quelle della caratterizzazione, tra l’istanza di una resa impersonale ed il desiderio di infondere la propria impronta. La fotografia è scelta.
Una scelta che parte dall’inquadratura per poi addentrarsi al suo interno tra gli ammalianti gorghi del possibile.
Come in canoa su di un fiume, l’importante è danzarci attraverso senza rimanere avviluppati entro indesiderate rotazioni.
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