Dove risiede il limite intransigentemente invalicabile, mai si potesse esaurientemente ottemperarvi? Nella resa dell’incarnato. Ma prima del contenuto (corpo umano), occupiamoci del contenente (indumento) in chiave analogico/metaforica.
Come sapete, rifuggo le mode quale espressione di pecoraia insensatezza. Ma in materia d’abbigliamento negli anni trenta del secolo scorso sono stati messi a punto canoni che odiernamente ancora non deflettono dalla loro funzione di guida, argine e baluardo verso le tendenze nichilista della così appellata “moda”.
È per questo che per la seconda volta menziono la giacca classica, e lo faccio in rapporto al colore. O della sua assenza, se il bianco ne costituisce esempio.
Ebbene, le definizioni accessorie – più imnaginifiche che sostanziali – tentano di descriverne viraggio. “Ghiaccio” se improntato al freddo. “Crema” se caldamente connotato.
Non che queste definizioni non corrispondano, seppur approssimativamente, a diverse temperature/colore misurabili in gradi Kelvin. Piuttosto, definiscono ambiti. In un catalogo di prodotti, inammissibile non tenerne conto. Lì il colore è caratteristica funzionale alla proposta commerciale, la quale a sua volta definisce contorni d’impiego, dopo l’acquisto (formale, informale, diurno, notturno, estivo, invernale).
È un campo denso d’insidie, quello dell’aderenza cromatica indumentale. Una per tutte: ci vuole un niente perché un capo di colore blu, specie se usurato, tenda al viola. Ma – come da incipit del presente articolo – il vero discrimine della (illusoria) intransigenza cromatica risiede nella resa dell’incarnato.
Perché non stiamo più parlando del contenente, ma del contenuto. Che, accidenti, è un essere umano. Che è più grave tradire. Di quale tipo umano stiamo trattando?
Dobbiamo limitarci all’involucro. Perché è lo stato esterno ad essere visibile, quello epidermico. Caucasico o non? Pallido od abbronzato?
Qui si palesa il carattere ascentifico della fotografia, quando si tenti di elevarsi dallo stato empirico a quello di una misurazione di replicabile misurabilità. Ciò in quanto esistono regole orientative, che tuttavia falliscono miseramente nel tentativo di consegnare parametri certi. Se di carnagione caucasica, un tot percentile da attribuire al canale del rosso, un tot al verde… E poi lo sfumato scivolamento dal concetto di color correction a quello di color grading.
Insomma, al netto dell’inafferrabile concetto di neutralità cromatica (con il corredo di paccottiglia – tale se considerata panacea di ogni male – oggettuale e prassuale che l’accompagna: carta/colori; calibrazione da sottoporre ad ogni anello della filiera riproduttoria) e della luce che colpisce , ogni tentativo di supposta fedeltà collide con la relatività di collocazione e percezione di qualsivoglia scenario.
E però, se vi è una entità che merita di serbare un simulacro di “naturalità” è per l’appunto quella dell’immagine umana (si vuole verde di carnagione l’Incredible Hulk, non l’esemplare intruccato). Glielo dobbiamo, ce lo dobbiamo, all’animale/uomo.
Perché anche un goffo tentativo di non abdicare alla comune esperienza visiva va nella direzione di attribuire la rilevanza del vivere autocosciente (che è una dannazione, ma sublime) rispetto all’amorfità che lo contrappunta.
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