George Bernard Shaw.
È accattivante, il barbuto dublinese.
Perché sa dispensare profondità concentrata, ma anche innervare di sostanza la carta stagnola dei cioccolatini o note a piè di pagina sul Reader’s Digest.”Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso, e si usano le opere d’arte per guardare la propria anima”.
La frase è sua.
Cheppoi, occorre guardarci dentro.
Alla frase, allo specchio, alle opere.
Potrei giocare tra bisticcio e paronomasia nell’asserire che anche uno specchio, in una fotografia…
Basta, come soleva tagliar corto Achille Campanile, allo specchio ci arriveremo tra poco.
Prima Paul Klee.
“Geist eines Briefes”, che allitera con teutonica asprezza e sta appeso al MoMA.
Gode di specularità, l’immagine?
Sì, se al solito ci spogliamo della letteralità.
Non è più un rambaldiano ET pensoso, bensì il dialogo tra due triangoli sbracati.
Così diventa uno specchio succoso perché infedele.
Ed è infedele lo specchio di Marina Viviani?
Fortunatamente, sì.
Oh, lo so, letteralmente è fedele.
È una fotografia, perbacco!
Ma mente in una maniera sottilmente ingegnosa.
Perché mostra uno scrigno, nell’abbandono.
La visione diretta ci parla di stratificata deprivazione.
Il riflesso di agognato reperto.
Ciò che si ha davanti poteva non aver mai conosciuto vestizione.
Quanto trapela del dietro promana vita.
Specchio, opera, anima.
Il drammaturgo e critico musicale irlandese era anche linguista.
Della parola conosceva espressione e spoliazione.
E quanto vagano, i sensi.
I sensi sensibili e quelli concettuali.
Tutto fluttua.
E quando si ferma, incide.
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Claudio Trezzani
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