Fotografia & Neuropsichiatria

I neuropsichiatri si sono incaricati di stilare una classificazione, basata su dati statistici frutto di esame clinico, della progressiva capacità che si acquista in età prescolare nell’elaborare grafismi. Riprodurre con la matita su di un foglio bianco una scala od una croce sarebbe alla portata di un bambino di quattro anni. Proprio quello che ha disegnato le due opere a visuale corredo di questo brano.

D’accordo: le linee tracciate sono troppo nette: ad eseguirle è stato invece un bambino di sette anni con l’ausilio di un righello. Ma è davvero così? No, sono due fotografie. Fotografie?

Suvvia, sia stato un bambino od un adulto, si tratta di un’opera realizzata con inchiostro di china su carta… Eppure è giunto il momento di dire la verità: niente pigmento nero con legame acquoso, sono proprio due fotografie, delle quali posso mostrare i files raw originali. Ciò genera una serie di spunti. Lasciamo stare Picasso ed il suo percorso a ritroso a partire dalla fedele riproduzione. Qui non c’è un artefice consapevole: il fotografo ha preso da ciò che già esisteva.

E ciò che esisteva, specularmente e per definizione, è inconsapevole della sintetica isolazione operata da chi ha premuto il pulsante di scatto.

Il problema, mai sia tale, è che difficilmente si crede che una tale parcità di elementi sia presente allo stato spontaneo: lo si direbbe piuttosto la conseguenza di una elaborazione umana non già dal suo trattamento, ma sinanco dalla sua realizzazione. Abbiamo però visto che si tratta effettivamente di un grafismo non creato ma riprodotto. Cos’è un “grafismo”?

La Treccani lo fa risalire al francese “graphisme”, per le accezioni che considera (ma ricordiamo che l’etimologia rimanda al greco “grafeo”, prima persona singolare indicativo presente relativa al verbo italiano “scrivere”). Ci si riferisce allora a quell’opera artistica che si caratterizza per l’estrema economia del segno, ma anche, nella stampa, alla parte “attiva”, contrapposta alla bianca passività del supporto. Il che condurrebbe a dissertazioni sulla valenza contrapposta di “vuoto” e “pieno”, di assenza e presenza, della potenza di un “taceat” quale succosa antitesi del fragore sonoro in una composizione musicale, etc.

Per ciò che attiene le immagini, siamo approdati al noto articolo intitolato “Minimal Art”, che Richard Wollheim scrisse nel 1965. A me viene da pensare anche agli haiku.

Qui bisogna chiedere a Ryuichi Watanabe, che certo ne sa immensamente più di me sull’argomento.

Purtuttavia, ciò che da profano mi affascina negli “haiku” è l’estrema potenza espressiva ottenuta con parcità di elementi, la capacità di sintesi assurta a mirabili livelli di prosciugamento, la deantropica densità che distilla essenze con rara pregnanza.

Ecco, talvolta si trova qualcosa del genere anche allo stato di impersonale casualità: nelle due fotografie a corredo di questo articolo il drone ha ripreso dall’alto cavi e seggiole di impianto sciistico con sotto il neutro sfondo della neve.

 

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Claudio Trezzani

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