Antonio Fusco.
Scrive, lavora, penetra.
Scrive del lavoro, lo penetra trasfigurando.
Sapete, non è solo per la faccenda che più d’uno scrittore millanta conoscenze di tecniche investigative e sinanco dell’humus ambientale, senza frequentarlo, l’ambiente.
E invece Antonio è proprio quello il lavoro che fa, la cosa è dall’interno.
No, è che Antonio penetra trasfigurando.
Trae dalla ribollente fucina di corale vissuto, e rimescola.
Che c’entra con la Fotografia. ciò?
Lo scopriamo analizzando i due screenshot a corredo di questo brano.
Antonio parla da remoto, come s’appella oggidì.
Casa sua, ufficio?
Non lo sappiamo e non c’importa.
C’importa – m’importa – è che vediamo cose che di lui parlano.
O del potere d’indagine della Fotografia.
“Indizi, omogeneità, tomi”, ho titolato quest’articolo.
Gl’indizi dell’omogeneità dei tomi, se V’aggrada seguitar giocare con le parole.
Ma la conclusione è sbagliata.
Perché s’arguirebbe: troppa omogeneità nella rilegatura dei tomi.
Troppe rilegature uguali, ci s’incammina pericolosamente verso il noto paradigma dell’ignoranza che vuole gl’illetterati empire pareti con libri – mai letti – tutti uguali.
O addirittura, finti.
Niente di più sbagliato, qui.
Sì, c’è dell’uniforme grigio nel secondo scaffale – dal basso verso l’alto guardando – a destra del fotogramma.
Sospetto non siano volumi d’enciclopedia – altro indizio di non/lettura, sarebbe, nel senso dell’indifferenzialità dell’optazione – in quanto variano le dimensioni, benché la risoluzione non consenta di leggere le scritte.
E tutto il resto, muta.
Cangiando, testimonia scelta.
Scelta, dunque consapevolezza.
Consapevolezza, ergo assimilazione.
Assimilazione, ancora un indizio.
Indizio che il motore è stata la curiosità, ovvero l’intellettuale vivacità.
Ed il risultato è stato l’arricchimento.
E l’arricchimento introitato ha determinato un arricchimento promanato (una trasfusione da scrittore a lettori).
Cos’altro, in quest’immagine?
Antonio fa coincidere il capo con l’unica porzione neutra della stanza.
Neutra in disegno e cromie: lo sgombro stipite tra scaffali.
Basta a non stornar attenzione?
No, non basta.
Anche perché il corpo non è parallelo alla parete, relazione che invece i due manufatti condividono.
Dunque, vi è stata ricerca, pur non coronata da successo (Antonio non è fotografo, forse).
Conta, la distonia?
Sì, ma non negativamente: il disarmonico affastellamento disturba, ma è più importante che riveli.
E pezzi, rivela.
Frammenti di vissuto, anche letteralmente.
Frammenti di pietra, sassi.
Pietra di cosa, sassi dove raccolti?
E fu lui a raccoglierli?
Pensando a cosa, mentre lo faceva?
Evocando cosa, successivamente?
Poi, la macchinina.
Ancora, scarsa risoluzione.
La coda potrebbe essere di una Marea, la porzione visibile del frontale potrebbe appartenere ad una 156 che cita nei suoi libri, oppure ad una 159.
E il fiore, perchè coricato?
Amorevolmente adagiato, sospetto.
Poi gialli per cromatica antonomasia di destinazione, lavoro anche quello al pari di quello col distintivo (informarsi cosa i colleghi fanno, nel genere letterario).
Poi best seller d’Oltreoceano, poi raffinate (indizio la studiata sobrietà di tono e grafia) collane.
Poi onda dal tratto ellenizzante, in vaso.
Un pupazzo, tagliato occhieggia.
Il gioco, suo o altrui.
Il persistere del primigenio incanto.
La coltivazione della dimensione emotiva sopita ma non spenta.
Il tricologico rigoglio, la cartesiana – per converso – rasatura del pizzetto.
La camicia provata dalla posizione seduta, non conosce il trucco degli anchormen statunitensi.
Ciò che Antonio conosce, invece, è la vita.
Sì, tutti la conoscono, per il fatto d’esservi buttati dentro.
Poi però ci sono gl’accenti.
L’essere trascinati dentro situazioni intense, trarne personale sintesi.
Ciascuno con la preziosità di peculiarità individuali, ma Antonio le sue le sa trasmettere.
Sempre Platone, ma non è sua l’esclusiva.
Perché non è stato il primo a dire γνωθι σαυτον ma è stato lui a parlare delle caverne.
Di quelle delle ingannevoli ombre, intendo.
Sì, conosci te stesso e guardati dalle apparenze.
Abbiamo visto ombre, sugli scaffali?
Non lo credo.
Ogni libro è autobiografico indipendentemente dal contenuto.
Perché è l’autore a scrivere.
E ogni scaffale è autobiografico perché consustanziale all’essere umano cui è abbinato.
Ecco, la Fotografia: suggere da scaffali, anche.
Abbracciare composizioni con mente inclinata all’analisi, ma anche aperta ad emotive intrisioni.
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Claudio Trezzani
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