Fotografia, Camus, Nietzsche

Consideriamo la fotografia a corredo di questo brano. Il soggetto è rappresentato dall’uomo che cammina al centro dell’inquadratura.

Pagando pedaggio alla talebanica ed iconoclasta norma circa malinteso senso di privatezza, ho dovuto sfuocarne il volto.

Ma c’è una ulteriore modifica che ho inteso operare. Se guardate in basso a sinistra, potrete scorgere una squadrata delimitazione tramite apposizione di bordo rosso. Cosa trovate all’interno?

Niente, molti risponderanno. Incorniciata di nero, una massa indistinta e sfuocata di colori. Eppure là dentro si agita un mondo.

Così vibrante, che dopo aver concepito l’inquadratura generale – la prima interpretazione del veduto – il mio sguardo si è tuffato dentro quella piccola area. Subito dopo, senza esitazione.

E da lì non si sarebbe più discosto, potendo. Perché questo è accaduto? Sapete, in precedenti articoli avevo accennato al concetto di astratto, o a quello greco di epopteia.

Qui però il fenomeno non è esattamente sovrapponibile. Nella concezione aristotelica l’astrazione consiste nell’estrarre l’intellegibile dal sensibile; l’epopteia altresì contiene l’idea di andare oltre. Qui invece si cambia sì lettura rispetto a quella letterale, ma per abbandonarsi.

Per sostare languidamente in un leopardiano dolce naufragare, non per lanciarsi nella ricerca di novelli segni.

Seguendo l’auspicio di Camus, non si tratta di rinnegare la ragione, ma di governarla aprendosi a spazi ad essa esterni. È la trasvalutazione di Nietzsche.

Quanto a me, l’operazione è stata “automatica”. Un principio di “necessità emotiva” ha guidato rapidamente il mio sguardo in quella remota regione del fotogramma.

Così la fotografia si pone al servizio dello spirito dionisiaco, divina assaporazione di ciò che più che “oltre”, è “dentro”.

 

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Claudio Trezzani

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