Questo filmato invita ad un tuffo nei colori. Viene spontaneo vagheggiarlo poiché l’essere umano subisce attrazione verso cromie accese, luci ed il liquido elemento, quasi ad esprimere desiderio di ricondursi alla rassicurante protezione che ci veniva assicurata dal liquido amniotico. Dunque, il desiderio di essere “dentro” la scena. Un momento, però. Cosa significa essere “dentro” la scena?
Spostiamoci dall’acqua alle persone. Un non indifferente numero di fotografi di situazioni urbane vi dirà che essere “dentro” la scena consiste nel fronteggiare fieramente una o più persone a distanza ravvicinata, con focali di 28 o 35 millimetri. Siamo sicuri che, con Aristotele ed Eschilo, non abbiano commesso il peccato di hybris?
Benché tale termine greco esprima il più ampio ventaglio semantico rispetto al concetto che intendo evocare, tra le lingue moderne trovo che il lemma boldness si avvicini all’accezione desiderata più che l’italiano tracotanza, che limita il significato ad una connotazione negativa ingenerosa nei confronti della buona intenzione che anima i summentovati fotografi “stradali”.
Affrontando l’argomento prima dal lato tecnico indi sotto il profilo emotivo si comprenderà gradatamente la ragione per la quale ho impiegato termini quali hybris e boldness. Banalmente, partiamo da una questione di fattore d’ingrandimento: usando un 28 o un 35 mm si sarà meno “dentro” la scena rispetto alla visione umana poiché questa corrisponde ad un rapporto d’ingrandimento maggiore.
Questo indurrà ad avvicinarsi molto qualora l’intento sia quello di porre l’accento su singole individualità, con il risultato di introdurre deformazioni che tradiscono le proporzioni delle fattezze umane, anche se non nego che questa ravvicinatezza, se riferita ad un gruppo di persone poste a differenti distanze, rechi in dote un coinvolgente senso di dinamismo ed avvolgenza. In questo senso, non mi trincero dietro l’oggettività tecnica: se è vero che essere “dentro” la scena con una focale più ampia di 50 mm è una contraddizione in termini, ammetto che porsi a breve distanza dai soggetti con una focale grandangolare apporta un senso di calda partecipazione agli eventi.
Qui però spunta Mario Soldati.
Da scrittore e regista annotava che spesso i suoi occasionali interlocutori, consci del suo ruolo, recitavano. Cosa intendeva dire?
Che nel desiderio di offrire di sé una immagine che potesse attagliarsi ad uno spunto letterario o cinematografico, i suoi interlocutori accadeva non fossero “naturali”, pur se in un contesto informale. E quale fotografo desidererebbe un comportamento artefatto da parte dei suoi soggetti?
In ordine all’esigenza di serbare la “naturalezza” dei soggetti, la lunga focale ci fornisce invece un ausilio prezioso. Anzi, in talune occasioni l’inconsapevolezza della ritrazione consente ai soggetti di mantenere una preziosa spontaneità.
Ecco perché ho parlato di hybris e di boldness: recano in sé un concetto di contrapposizione. Mi capita di sentire fotografi affermare che non hanno paura di stare vicino ai soggetti, quasi il processo consistesse in una gara di ardimento, o peggio, nella fierezza di un condizionamento.
Con la focale lunga ciò non accade: il soggetto si muove con spontaneità, libero di esprimere il suo inimitabile patrimonio di accenti.
E vi è anche un’altra ragione, correlata alla precedente: il fotografo, grazie alla capacità d’isolazione propria di un teleobiettivo, ha scelto una persona in particolare, latrice dell’irrreplicabile tesoro di unicità che ciascuno possiede, anziché abbandonarsi ad una scoordinata danza di comparse tra soggetti resi oggetti dalla loro marginalità inquadratoria.
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Claudio Trezzani
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