Evoluzione dei droni e loro sviluppi

In questa occasione intendo addentrarmi nell’argomento prescelto per gradi, tramite un breve excursus retrospettivo condito con un piccolo aneddoto personale. Ritengo in tal modo di meglio orientare il lettore nella appropriata direzione dell’analisi.

Anni fa utilizzavo una videocamera dotata di 3 sensori CCD da 1 / 4,7 pollici. I filmati avevano una risoluzione massima di 710 K X 3 (in rapporto tra i lati di 16 : 9, ratio che assicurava la maggior superficie utile su quel sensore, in modalità video).  I filmati rientravano nella convenzionale definizione di Standard Definition, e venivano registrati su nastro secondo la compressione denominata Mini DV. Questo è un punto importante, su cui presto tornerò. La qualità, nell’ambito del segmento di mercato cui la videocamera apparteneva e tenendo conto dello stato della tecnica di allora, era soddisfacente.  Ma venne il giorno del trauma: dovendo inoltrare i miei filmati ad altri su supporto ottico, dovetti assogettarmi ad una terribile parola: finalizzazione. Dovetti cioè dire al software: mi serve una copia destinata a DVD di questa clip, fai quel che si deve al riguardo. Il risultato fu disastroso ai miei occhi, fonte di autentica sofferenza: la relativa pulizia del segnale perduta, l’orizzonte baluginante, il prodotto finale una pallida ombra di ciò che era stato. Cosa era successo? Era accaduto che il software mi ha risposto: se vuoi davvero che il filmato sia visibile sul lettore di DVD del destinatario, lo devo orrendamente ipercomprimere.

Lo devo fare perché le scelte progettuali dei costruttori hanno dovuto tener conto di due limiti : i DVD contengono relativamente poca roba, e il processore del lettori è poco potente. Corollario del quadro: se volevi mantenere la qualità originale del filmato, dovevi visionarlo nel suo formato “nativo” (la relativamente blanda compressione mini DV, o optare  – in sede esportativa, intendo – per altri formati in cui la preservazione dell’originale presentava il conto sotto forma di immane dilatazione dello spazio di memoria occupato). Nei casi in cui invece esigenze di diffusione ti obbligavano alla propalazione su DVD, l’aggressione degli artefatti di compressione peggiorava spaventosamente la qualità d’immagine. Poi ci fu l’avvento della sbandierata High Definition, e la situazione peggiorò ancora. E’ bene essere esaurienti su questo punto, perché le conseguenze le paghiamo ancora oggi. L’HD è stato il più ingannevole feticcio partorito dalla brillante mente dei pubblicitari. Tamburellata la sigla sino all’estenuazione, ha indotto legioni di consumatori a ritenere l’acronimo sinonimo di qualità tout court. Niente più considerazione per le dimensioni della superficie sensibile , la qualità ottica degli obiettivi, la bontà generale della catena di generazione dell’immagine.

No: arriva l’HD e anche l’ultima action camera magicamente diviene campionessa di qualità d’immagine. Improvvisamente la densità di pixels appare come l’unico parametro atto a stabilire un criterio di qualità.  Il fenomeno è stato (ed è) parallelo a quanto verificatosi in ambito fotografico, ma con una fondamentale differenza. Mentre con le fotocamere la maggior densità di pixels è un giano bifronte (il pregio del possibile maggior formato di stampa, il maggior margine in ritaglio ed in trattamento postproduzionale; il difetto della minor superficie del singolo fotodiodo atta a ricevere la luce, con il negativo influsso sulla generazione di rumore elettronico all’amplificazione del segnale), nel mondo della videografia ha comportato una mostruosa conseguenza, sulla scia del discorso avviato all’inizio di questa dissertazione: più pixel = più peso, ergo maggior necessità di comprimere.

 

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Claudio Trezzani

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