In “Emozione e scuola” scrivevo:
“Sapete, ci sono cose che abbiamo dentro ed altre che ci aspettano di fuori”.
E aggiungevo:
“Una buona scuola è muscolo per la materia grigia.
Ma agisce anche più sotto”.
Colui che l’aveva frequentata, la scuola, era Jim Larimer.
Succedeva in Illinois.
Lì, spiegavo, “può esserci una stanza con dentro una Yashica Matt 6 X 6 ed attrezzatura per sviluppo. Anche nei college, mica solo all’università”.
Intendevo dire che anche in un contesto generico vi era una attenzione per la Fotografia, ed i mezzi per praticarla.
Da noi, no.
È non è per una faccenda di iperspecializzazione, quella stessa che mi fa paventare un giorno si approderà alla figura di un entomologo che conosce un’unica zampetta di millepiede.
Anche oltreoceano si va in quella direzione. Se possibile, di più.
No: è che da noi certe branche dello scibile che odorano di prassualità sono risparmiate alle delicate menti degli umanisti.
E Stefano Corsi, umanista è.
Non solo ha fatto studi di quel tipo, ma una volta laureato si è a sua volta fatto vessillifero delle cose dello spirito insegnandole in un liceo.
Niente Yashica Matt 6 X 6, però. Nemmeno per lui.
Ma quando delle cose dentro spingono con petulante energia, il modo di uscire lo trovano.
Sa molto poco di macchine fotografiche, il Prof. Stefano Corsi.
Si è comprato una reflex, che ha voluto conoscere il tanto che basta per scattare.
Oltretutto, è quasi del tutto indifferente ai suoi pregi e – orrore! – con indecente noncuranza intercambia la Meccanicamente Specchiata con la Punta di Spillo – il telefonino – quale dispositivo di ritrazione.
Ma poi è successa una cosa.
È andato in collina e ha realizzato una fotografia degna di spiccata ammirazione.
Niente di miracoloso.
Piuttosto – e scusate se è poco – eccezionalmente ben composta ed espressiva.
Non è tutto.
Spronato da questa pregevolezza iconografica, mi sono recato sul posto.
E non con l’approccio accessorio del Prof. Corsi, che era lì principalmente per godere il luogo senza soverchia preoccupazione di tramandazione visiva ai posteri.
No, io sono andato lì proprio per fotografare, e per fare meglio.
E ho fatto peggio.
Nessuna delle fotografie da me realizzate è stata all’altezza dell’unica sua.
Ciò ci dice qualcosa sulle cose che abbiamo dentro.
Naturalmente, non era la prima volta che Stefano Corsi faceva qualcosa di significativo con la fotocamera o – lo biascico obtorto collo – con il telefonino.
Così non possiamo nemmeno agitare lo spettro di quello che io appello “tasso di alea” : di sortire qualcosa di interessante “involontariamente”.
Ciò non significa che il Prof. Stefano Corsi in fotografia non sia pressoché un illitterato: non nutrendo un interesse specifico, non si è peritato di approfondire grammatica e sintassi. E così, lo è. Se ne può uscire con orizzonti storti (non più, da quando gliel’ho fatto notare), all’interno del consueto inventario di ingenuità e turpitudini proprie del dilettante.
Ma, direbbe un gesuita o un barnabita, questi sono meri accidenti.
Certo, per crescere, da evitare.
E non che la cultura c’entri direttamente: conosco un portalettere – le lettere le consegna, non se ne imbeve – che è un grande fotografo.
Casomai, la sua consapevolezza della potenza del segno, comunque declinato, lo induce ad essere diligente nella correzione: l’esattezza è un portato della forma mentis che si acquisisce con uno studio rigoroso.
Ma la diligenza è una stampella, non una freccia.
Se uno non ha dentro di sé la forza di scoccare, il bersaglio non verrà raggiunto.
E Stefano c’è l’ha, questa spinta propulsiva, anche se di parziale conscietà.
Ecco allora la grandezza della Fotografia traverso il valore di un suo attore illitterato: nulla può la tecnica, se non vi è lo spirito ad illuminare.
Per la fotografia a corredo di questo brano: Stefano Corsi all rights reserved.
Per il presente testo: Claudio Trezzani all rights reserved.
Claudio Trezzani
https://www.saatchiart.com/account/artworks/874534
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