Sapete, un lontano giorno a Roma la moglie del custode di un museo fece riflettere Goethe.
Sorpreso Giovanni Volfango in prolungata contemplazione di una statua, e sorpresa di trovarlo in cotal guisa – avendo in precedenza appurato che il tedesco non era lì per motivi religiosi – gli chiese se per caso il manufatto non avesse le sembianze di una donna amata.
Concluse, Goethe: la povera donna conosce la religiosità e l’amore, ma non la facoltà di estasi artistica.
Dotato di una macchina del tempo, ho prelevato questa dubbiosa signora dalla papalina urbe, e le ho mostrato sullo smartphone le immagini che stava catturando il mio drone.
Di nuovo, ella ha manifestato la sua perplessità.
E lo ha fatto con queste parole: “che senso ha indugiare su questi campi sportivi nel momento in cui essi sono deprivati della loro funzione?”.
Non sentendomi sufficientemente autorevole per risponderle con ferrato eloquio, ho per la seconda volta impiegato la macchina del tempo, resuscitando Renè Descartes.
Che ha chiarito, alla moglie del custode: “Un conto è l’idea materiale, che come sa si forma nella ghiandola pineale, sede dell’anima; altra faccenda è l’idea mentale, che in quanto atto di pensiero ha una realtà formale non fisica. Deve tenere presente questo dualismo metafisico”.
Quanto a me, mi sono limitato ad aggiungere: “Isomorfismo”.
Già, isomorfismo.
Sapete, è una cosa – anzi due – che dicono molti passeggeri di aeroplani, dopo aver scrutato il mondo di sotto attraverso gli oblò.
La prima è che da quell’ordine di grandezza percettivo si è portati a ridimensionare gl’umani affanni.
La seconda è che da così in alto tutto sembra lindo, “pettinato”.
Ecco, pettinato.
Ecco, l’isomorfismo.
Quei campi sportivi, dalla distanza che il drone consente, non sono più erba o cemento.
Godono di dematerializzazione, come si dice oggidì.
Eccosì, sono ciò che vogliamo.
Ciò che ognuno di noi vuole, ognivolta.
Ecco, la fotografia.
Aprire una porta, trovarne altre.
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Claudio Trezzan
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