Sovente il fotografo si dibatte in un dilemma, che scaturisce dal dispiegarsi di forze contrarie dentro e fuori l’inquadratura prescelta: ha individuato una coesione interna, un possibile sbocco, in una determinata area dell’immagine, ma il proposito di colloca rla spazialmente, di assegnare pesi specifici attraverso l’assegnazione di posizioni tra loro interagenti collide con l’inclusione di elementi di disturbo esterni che tale collocazione implica.
In altri termini: vorrebbe avere solo taluni elementi, desidererebbe “stringere” lì, e vorrebbe farlo con una inquadratura che instauri reciproche relazioni in un dialogo gerarchico, ma si trova dinnanzi ad una dicotomia in prima battuta insanabile: od operare cesure a discapito di componenti ritenuti irrinunciabili, o per converso “aprire” a scorci che minino il linguaggio che si voleva parlare.
Nel caso che qui iconograficamente si illustra, esso s’inscrive nella particolare temperie delle visioni zenitali con droni, nonché nel rapporto tra natura e manufatti, di peculiare specie in ambito rurale. In un precedente articolo avevo trattato delle differenze riscontrabili tra visioni frontali e zenitali quanto a stratificazione dei piani, e di come tali caratteristiche s’interfacciassero allo schema inquadratura/pulizia formale/astrazione.
Alle prese con le suesposte problematiche, il fotografo trova ad un tempo un limite che può indurlo a soprassedere o ad alternative che generano nuova linfa per l’esplorazione.
Scelto di proseguire, il fotografo sa che l’esito si giocherà sui millimetri, sulle tonalità, sui valori di luminosità, in una orchestrazione conplessiva che tende – nei quattro casi qui presentati – ad un generale asservimento verso un sapore grafico anche di elementi generalmente reputati estranei a questo orientamento interpretativo.
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