A Parigi, nel Musée de L’Orangerie c’è una grande sala bianca.
Bianca, ma giusto per far risaltare i colori del quadro di Monet che l’attornia.
L’attornia?
Sì, il quadro è curvo.
Una cosa fisicamente curva siamo autorizzati a chiamarla tale.
Ed in Fotografia?
Sapete, ad aberrazioni sempre più spesso assistiamo.
Immagini multiple fondendo scatti che ampliano l’angolo di campo non per spostamenti in asse della fotocamera,
bensì per rotazioni della stessa sia in senso orizzontale che verticale.
Il risultato è l’irrealtà.
Eppure con i droni è assai agevole spaziare in aria (parliamo di fotogrammetria, ma anche di programmi – sovente di terze parti – che rendono preimpostabile lo spostamento in asse), senza ricorrere all’ingannevole trucco delle rotazioni.
Ed anche a terra, spostare con criterio lo stativo può essere d’ausilio.
Perchè, diversamente dal parigino Claude, noi fotografi non possiamo prescindere dall’istanza documentale, e se nutriamo pensieri astratti non ci è consentito trasfonderli nella macchina se non con un approccio mentalmente orientato, non con artifizi che snaturino la fisicità della cosa ritratta.
Altra aberrazione, lo schermo curvo di alcuni monitor o tv al servizio d’immagini tradizionalmente ottenute.
Come il quadro curvo di Monet, ma senza l’intento che ha accompagnato passo/passo la realizzazione da parte dell’impressionista francese.
Cosa fare allora?
Due i files a corredo di questo brano.
D’infima qualità a cagione dell’insufficiente superficie sensibile del sensore impiegato (non più d’un pollice).
Ma illustrano il tema trattato.
La fotografia risente del summentovato espediente di ruotare senza spostarsi.
Il filmato, no.
Esso – si tratta di un motion lapse – non tradisce l’effettività dello scenario per il semplice fatto che – pur costando di singoli fotogrammi ottenuti per successivi scatti temporalmente intervallati – detti fotogrammi non sono fusi in un atto che simuli simultaneità, bensì proposti in progressione.
Progressione che giustifica la rotazione.
La giustifica perchè non tenta illusioni.
Già, illusioni.
Quanto a Monet, critici d’arte e scienziati hanno lungamente discettato sui mezzi usati da Claude per ingannare mercè colori e stesura delle pennellate.
Ebbene, il quel caso l’illusione è uno strumento endogeno al linguaggio del pittore, funzionale alla sua concezione espressiva e consustanziale all’esecuzione.
In fotografia, invece, il rischio è quello di una letterale deformazione, ovvero di una bugia.
Si mente quando non si avverte che si sta modificando.
Ecco, avvertire.
La fotografia è il luogo del reale rivisitato, non mistificato.
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Claudio Trezzani
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