Una volta Luca Goldoni scrisse che scorgere polpacci e cosce di pedalatrici in gonna tramortisce più d’una nudità diffusa.
Noi fotografi lo sappiamo bene.
Perché siamo dei guardoni.
Attenzione, però.
La pulsione sessuale entra nell’equazione giusto di sfuggita, nella misura in cui s’individuasse neurofisiologicamente una comunanza d’attivazione con il desiderio di scegliere con intimità.
Sì, scegliere con intimità.
Una vignettatura pronunciata indotta postproduzionalmente.
Lo spiraglio tra muri di Alexander Bull.
Le fronde di Danila Paoletti.
L’oggetto del desiderio – il colonnato, la chiesetta, qualsivoglia altra cosa – è meglio raggiunto se ottenuto sgomitando.
Ma sgomitando con ritrosa pudicizia, mai s’applicasse la definizione al caso.
Con il viso lacerato dalle mangrovie, ma – deposto il machete – accostandovisi con umile sommessa fervorosità.
La cosa agognata trae sbalzo da una giustapposizione ove risulti vincitrice.
Il fuoco arde ove la ghiera dell’obiettivo si posa.
La sintesi è meglio operata laddove la genesi appaia in progressione.
La saldezza di scelta si nutre dell’istituzione di gerarchia.
Il frutto è meglio divorato se l’albero è stato scalato.
La meta si svela traverso percorso.
La volgarità del tutto cede alla pregnanza dell’individuazione.
Il particolare trae affilatezza da una attorniante indeterminanza.
Lo sappiamo: per noi fotografi il sole è meglio se velato.
La Fotografia è una luce spot moderata da un gigantesco bank.
Un bagliore, lì e per sempre.
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