Armonizzata, abbagliata, haikuante.
Tre modi d’essere pianta.
Tre modi di percepire pianta.
Perché essere non significa vivere, e vivere non significa possedere autocoscienza.
La pianta vive ma non sa.
Però, fa.
Cresce, e qualcuna si sposta pure in un lasso di tempo percepibile all’occhio umano nel suo divenire.
Motu proprio, intendo (ché agitarsi al vento è cosa comune ed eteroindotta).
Mi riferisco a quelle – io l’ho visto fare – che ritraggono foglie al contatto estraneo.
Dunque, percepire.
Altri mirano sua apparenza, altri catturano, altri interpretano la cattura.
Chi è lì, chi è lì pigiando tasti, chi vede dopo.
La pianta conosce il terreno, non la collina.
Kyoo Hyun conosce anche la collina.
Kyoo, la colloca, la pianta, nella collina.
Oh, non che l’abbia eradicata.
Piuttosto, gli è che Kyoo possiede occhi, gambe, attrezzo.
Con l’occhio ha visto, con le gambe ha individuato il punto, con la camera ha scelto l’inquadratura.
Anche questo è uno spostare, e Kyoo ha giostrato tra gli spazi con felice mano nell’orchestrare pesi.
E nel dosare il tono: la pianta reclama attenzione – oltre che per posizione – per essere latrice della maggior densità.
Più della collina, più ancora della montagna.
E il cielo, vuol rinunciare a completa aerità (allude, con sbaffi e sbuffi, a matericità).
Una prova di sicuro gusto e liricità trattenuta eppur suadente.
Michael Schlegel tende un agguato.
La pianta dormiva.
Senza sognare d’essere graficamente potente, anche perché – potesse – lo saprebbe anche da sveglia.
Sa però che vento l’ha forgiata ed accarezzata.
Michael vuole di più.
La vuole divina, la pianta.
Signora delle tenebre.
E delle forme, ancor più che diurnamente in brughiera.
Con la luce ha estratto il succo, Michael.
Una radiografia senza l’algore della radiografia.
Un intenso, pregevole inno alla potenza della sagoma, qualcosa che – per come Michael ha saputo asciugare il tratto – s’incammina verso i territori della parola scritta.
E parola scritta è – perentoriamente – con Paola Riva.
Ancora formale prosciugamento, in un mirabile equilibrio tra icasticità e soffusità.
S’, è un’haiku la fotografia di Paola.
Lo stelo, la rovesciata pagoda – sì, pagoda – sono segno senza essere simbolo.
L’haiku in letteratura non ha titolo, questa immagine non cerca significato.
Non cerca, ma trova, se proprio vogliamo parafrasare Picasso.
Trova occhi che – grati – vigili riposano.
Sì, è un ossimoro.
Ma un ossimoro possibile: trovare quiete, intridersene, ma senza dimenticare il gesto.
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Claudio Trezzani
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