A corredo di questo brano, una fotografia tratta dalla celebre serie che si suole titolare “Painting Eiffel tower 1932”.
Postuliamo – condivise evidenze a ciò ci autorizzano – che questa immagine sia considerata riuscita, d’effetto, valevole.
Ma di chi è il merito?
Ah, il merito.
La Rochefoucauld diceva: “On ne doit pas juger du mérite d’un homme par ses grandes qualités, mais par l’usage qu’il en sait faire” .
Be’, qui allora il fotografo non è summum artifex della situazione.
Egli non ha dovuto soverchiamente sforzarsi, fare mostra delle sue intime qualità.
Ha avuto sì l’idea della ritrazione, ma poi non era lui lì.
Ovvero: non è suo il merito di aver raggiunto la perigliosa posizione, di aver posato, di essersi atteggiato.
Ecco, soprattutto di essersi atteggiato.
D’accordo, concedo: potente è il primigenio merito del fotografo, aver avuto l’idea.
Purtuttavia, data l’indicazione al soggetto, è quest’ultimo il protagonista attivo dell’immagine.
Si, attivo.
C’e più Charlie Chaplin che Buster Keaton in come egli intende il suo ruolo.
Quanto avrà influito il fotografo nel suggerirgli come porsi di fronte all’obiettivo?
Quanto regista è stato, il fotografo?
Per quante parole, per quanti gesti siano intercorsi tra i due, il finale attore è il soggetto.
Certo, potente è anche la sintesi della voluta inquadratura.
Ma per quanto il soggetto può essere stato istruito, della sublime plasticità della posa è quest’ultimo il responsabile ultimo.
Ancora, concedo: essa non è abituale al soggetto nella misura in cui non è funzionale al compito ordinariamente assegnato, quello di costruire edifici.
E non siamo neppure sicuri che sia questo un compito ordinariamente assegnato, al soggetto.
Egli però è l’interprete.
Senza la traduzione spirituale e muscolare che egli sortisce dell’incarico, non vi sarebbe esito.
Virtuosa cooperazione, alacre fucina di valori: la fotografia si nutre della mirabile osmosi tra ritraente e ritratto.
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Claudio Trezzani
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