Uno dei più affilati intellettuali che conosco – Karl Evver – ha così commentato il superbo quadro che Margaret Barker dipinse nel 1929 titolandolo Any Morning:
Non mi è mai riuscito di rifare
il letto con quella precisione
geometrica quasi metafisica
di cui danno prova le donne,
né tantomeno con quella
capacità di tendere
le lenzuola
che hanno le cameriere
degli alberghi, alla quale
può essere paragonata solo
l’arte degli Egizi di tagliare
il basalto come se già
avessero inventato
il laser.
Ecco, conferire ordine.
Senza smettere d’apprezzare il disordine.
Meglio, la sublimità delle casualità possibili.
Come con Silvio Manuele, ad esempio.
Lo scarlatto drappo gettato è il deus ex machina della situazione.
Tronfio di presenza, spessore, recondità d’indagine.
Fiero d’essere modo che non preclude altri modi.
E il lenzuolo che propaga onde dal drappo irradiate, ed il muro che raccoglie vibrazioni stemperandole.
E l’avorio della donna, e l’erinnica protusione della chioma.
Alexey Divnich, ora.
Da scarlatto a purpureo, il drappo canta ancora.
Lo fa per la seducente insondabilità delle pieghe, la solenne ieraticità delle forme, la cattedrale che il sostegno erige.
Già, il sostegno.
Bottiglie ch’intrigano per tono, opacità, trasparenze.
E ch’apportano scultorea plasticità al panno servito con autonomia di linguaggio.
Pieghe cui tutto si piega.
Ecco, la Fotografia: piegare cose a visioni.
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Claudio Trezzani
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