Si chiamava Serenello, e ne aveva combinata una grossa.
L’assunto di partenza non era mica male.
Pensava, Serenello: quando si passano in rassegna le opere di un artista, ci vuole progressione negli elogi.
Bisogna partire tiepidi, perché se si lodano sperticatamente già gli esiti minori, quando si arriva ai maggiori si è già esauriti i superlativi e le iperbole.
Così va a casa di Gontrano Balestrieri degli Armillini, pittore.
Prudentemente, s’informa prima di quanti dipinti avrà da visionare.
Sono un centinaio.
Caspita, qui occorre proprio volare basso, all’inizio.
Sennò, dopo una cinquantina di giudizi non c’è più margine per esternare una incrementata ammirazione.
Davanti al primo quadro decide quindi di dire: “mi fa rivoltare lo stomaco”.
Gontrano, allora: “pezzo di mascalzone, alla porta!”.
Così in “In campagna è un’altra cosa”, del sommo umorista Achille Campanile.
Desiderate non trovarvi mai nella situazione di Gontrano?
Io una soluzione ce l’avrei.
Giorni di forzata clausura per questioni sanitarie.
Si, lo so cosa avete fatto.
Avete riordinato i vecchi hard disks.
Ma cosa significa “riordinato”?
Ve lo dico io: tagliare, cestinare, buttare.
Sapete, non è la prima volta che distruggo infelici prove.
Questa volta però la mannaia è calata più decisa.
Perché ho trovato tons of shit, giusto per non dire parolacce in italiano.
Migliaia di fotografie fatte svanire, e senza rimpianti.
È necessario, anzi salutare.
L’intento di documentare un percorso quello no, non è da buttar via.
Ma tenere immagini scadenti non è la miglior soluzione.
E c’è una soddisfazione fisica, dopo aver fatto pulizia.
Come dopo un buon taglio di capelli, od una provetta spuntata di barba.
Cosa sacrificare, prioritariamente?
È incredibile come un tempo conservassi fotografie mosse.
Per avere impostato un tempo d’otturazione insufficiente a contrastare, in relazione alla focale, il mio movimento, oppure a fissare quello del soggetto.
Ora, se siete l’unica persona al mondo ad aver iconograficamente documentato le Torri Gemelle in fiamme, tenete pure l’immagine malfatta.
In tutti gli altri casi, nessuna pietà.
L’errore ormai è fatto.
Non c’è niente da fare, men che meno applicare una orribile maschera di contrasto di magnitudo mille.
Parente del mosso, lo sfuocato.
Se l’autofocus non ha agganciato in tempo, il risultato è simile a quello del mosso.
Ma c’è uno sfuocato che richiede ci cospargiamo il capo di cenere.
È quando abbiamo restituito nitidezza in una porzione dell’inquadratura che squilibra il gioco dei pesi.
Sapete, sta andando di moda non focheggiare più sul primo piano, ma non è una buona idea.
Poi, gli scenari insignificanti.
Basta la parola, basta così.
Le prospettive sbilanciate: idem.
Le inquadrature scorrette, ora.
Qui il discorso si fa parecchio interessante.
Perché ho una buona notizia per voi.
Qui – ma solo, badate, se l’inquadratura è sovrabbondante – potete rimediare.
Anzi, potete migliorare.
Mi spingo ancora più lontano.
Potete reinventare.
Cosa affascinante, questa qui.
A suo tempo avevate fatto una cattiva fotografia, e a distanza di molto tempo vi infondete la linfa di cui disponete adesso.
Riquadrate, e magari fate anche qualcos’altro.
Operate sull’immagine interventi postproduzionali che esprimano l’affinamento del gusto e l’accresciuta sapienza tecnica che nel frattempo avete maturato.
Purché tutto ciò non sia vanificato dal tipo di file che vi rimane.
Perché la vostra evoluzione personale può ben consistere nel fare di meno, piuttosto che di più.
Comunque, meglio.
Scelleratamente, anni luce or sono non scattavo in raw.
Con ancor maggior scriteriatezza, talvolta mi sbarazzavo dell’originale per tenere solo la copia modificata.
Certe porcherie!
Interventi pesanti, grevi, irrecuperabili.
Un giorno vi parlerò nel dettaglio di ciò che generalmente richiedono le agenzie.
Be’, è l’esattamente l’opposto di questa robaccia qui.
Come salvare allora, dopo aver visto il cosa?
Nel formato grezzo, e la copia lavorata in TIFF.
Preferibilmente a 16 bit, ma la decisione non è da prendere alla leggera: rispetto agli 8 bit per canale, la differenza di occupazione di spazio è assai significativa, quando si conservano centinaia di migliaia di fotografie.
Come distribuire il materiale negli anni?
Il metodo che uso io lo chiamo “a mattoncini”.
Visualizzate come sono disposti, in un muro.
Uno sopra l’altro, ma decentrati.
Avremo così il primo hard disk che documenta la nostra produzione dal 2000 al 2002, il secondo dal 2001 al 2003, etc.
Si ottiene così una sovrapposizione parziale che media tra due opposte esigenze: non eccedere in archiviazione ma allo stesso tempo godere di salvataggi multipli.
A proposito di questi ultimi, è importante sottolineare che la via della sicurezza passa attraverso non solo la ridondanza ma anche la molteplicità dei supporti: oltre agli hard disk salvo sempre le stesse fotografie in DVD e, più selettivamente, in stampa e cloud, oltre che in spazi internet pubblici (in quest’ultimo caso, a bassa risoluzione e con watermarks).
Ecco, ora avete tutto questo materiale.
Andate indietro nel tempo.
Non lesinate eliminazioni.
Guadagnerete spazio, nei meno recenti vostri hard disks, che potrete utilizzare per una iperselezione dei vostri migliori esiti posteriori.
Avrete così fatto sparire prove che ora, più consapevoli, vi farebbero arrossire, e nel contempo avete ancora sott’occhio una rassegna di come eravate.
E di cosa siete diventati su come eravate: come dicevo, alcune vostre foto potranno essere riconcepite.
Ecco, non facilitiamo il lavoro a Serenello: la nostra mano intervenga prima che la sua lingua si muova.
Sapete, di Achille Campanile i critici di minor profondità – non così pochi – lamentavano a sproposito che egli non era passato attraverso il tirocinio del Trivium (grammatica, logica, retorica).
Ecco, il Trivium di noi fotografi è costituito da un lungo percorso di errori ed apprendimenti.
Che i nostri hard disks facciano ammenda dei primi e tesoro dei secondi.
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Claudio Trezzani
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