Avete presente la fatidica isola deserta? È quella rispetto alla quale siete posti davanti al dilemma di cosa portare, avendo un’unica possibilità di scelta. In tema di programmi di postproduzione fotografica opterei ancora per Photoshop. Ciò in quanto rimane il software più completo, ed infatti tutt’ora fa parte del mio flusso quotidiano di lavoro. Purtuttavia, per ciò che attiene l’ottimizzazione squisitamente fotografica, il centro della mia attività risiede attualmente in Capture One.
Questo accade in virtù della bontà – della felice messa a punto – dei suoi algoritmi. Più che diffondermi su di una disamina al proposito, intendo qui soffermarmi su di un singolo elemento da cui è possibile estrarre considerazioni più generali. Con un certo grado di sorpresa mi sono avveduto che il profilo approntato da Capture One per la fotocamera Nikon D850 prevede quale preimpostazione un valore di Quantità (in Photoshop altrimenti denominato Fattore) nel pannello Nitidezza di centoventi unità. Perché con mia sorpresa? Perché non era accaduto nemmeno con i “suoi” dorsi digitali, con quelli di Leaf o con i dispositivi medio formato di Hasselblad. Con essi l’impostazione di default oscilla sui centoquaranta o più, mentre sino ad ora con le fotocamere di formato Leica si era attestato su di un granitico centottanta. Come interpretare questa variegata scelta?
La lettura positiva è: gli sviluppatori hanno rinvenuto una maggiore nitidezza “nativa”, dunque non hanno ravvisato la necessità di enfatizzarla in maniera marcata (ma ciò si scontra con scelte diverse operate rispetto a sensori più risoluti, dotati o meno del filtro passa-basso). La lettura negativa: i progettisti hanno voluto scongiurare (la preimpostazione permane inalterata al variare della sensibilità) una debordante insorgenza di disturbo da amplificazione del segnale non insistendo con un intervento non immune da effetti collaterali.
D’altra parte, ormai “storicamente” abbiamo assistito ad una comnerciale esaltazione di soluzioni non del tutto determinanti (le cosiddette lenti “gapeless”, il cui ammontare della superficie guadagnata al fotoricettore è in realtà modesta, oppure la magnificazione della capacità di discernimento dei processori, dimenticando che essi in realtà per arginare il rumore essenzialmente sfocano e desaturano) per limitare i danni di una esasperata densità dei sensori (vale sempre il noto alliterante motto anglosassone “no replacement for displacement”).
Perché ho indugiato su questo singolo fattore? Per evidenziare quanti elementi siano in gioco, oggidì con il digitale.
E tra questi, quanto margine abbiano i costruttori (Ryuichi Watanabe correttamente parlerebbe di “filosofia”), quanto le aziende che si occupano di postproduzione, e quanto noi, utilizzatori finali. Vi sono programmi – quali ad esempio Raw Therapee – che consentono al fotografo di entrare nel merito anche delle scelte di demosaicizzazione, gettando così uno sguardo nel regno degli sviluppatori. Molto sta a noi, dunque. Avere la consapevolezza per riconoscere, e gli strumenti per operare. Possiamo essere chirurghi, operare nel dettaglio come mai prima.
Ma sussiste un’era di Alto Artigianato dove il piacere della fine manualità si fonde armoniosamente con una profonda sapienza.
Mai sentito parlare dei corsi di Gerardo Bonomo sullo sviluppo delle pellicole?
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