
© Roberto Besana
E’ ovviamente impossibile sapere cosa abbia spinto Roberto Besana a prelevare la bellissima quanto intrigante immagine qui riprodotta. Perché le immagini non dicono, le immagini – e mi piace enormemente servirmi di una pregnante parola che appartiene al lessico rivoluzionario di Ando Gilardi – suggeriscono. Si possono quindi solo formulare delle ipotesi, ovviamente soggettive. Questo aggettivo, riferito all’immagine ottica, cioè all’icona che si forma automaticamente su un supporto capace di conservare il riflesso della realtà che il fotografo ha scelto di selezionare, potrebbe suonare paradossale. L’industria fotografica ha finanziato senza risparmio i periodici sulla fotografia affinché persuadessero i fotografi di essere gli autori delle loro immagini e nascondessero loro la realtà delle cose: che cioè le immagini ottiche sono prodotte automaticamente dagli apparecchi fotografici.
Quando si preleva una fotografia – e vengo a un assai importante suggerimento di questa immagine di Roberto Besana – resta tuttavia qualcosa che esula dall’automatismo dell’immagine ottica, un qualcosa che mi piace definire la “soggettività residua”, le cui tracce possiamo rilevare prima e nel momento del prelievo fotografico, come nell’elaborazione manuale chimica e digitale dell’immagine ottica. Se ne riparlerà in alcune note successive. Qui accennerò soltanto a una soggettività estremamente evidente, direi quasi addirittura didattica: mi sto riferendo, ovviamente, alla porzione di realtà che si decide di “inquadrare”, all’immagine quadrata o rettangolare che, “ritagliata” da quella circolare prodotta dall’obiettivo fotografico, desideriamo condividere. Credo di non sbagliarmi, se scrivo che probabilmente Roberto Besana sia stato attratto dall’involontaria inquadratura offerta da quella piccola cornice che conteneva un messaggio di cui è stata privata.
Venendo a quello che personalmente ritengo il suggerimento più intrigante di questa bellissima immagine – e ricordando che le immagini di Roberto Besana qui presentate rispondono al progetto di documentare l’impatto delle attività umane sul pianeta che ci ospita e gli sconsiderati credono ci appartenga – “confesserò” che mi piace leggere i parchi come metafore di un rimorso, rimorso generato dal più o meno consapevole senso di colpa per avere pesantemente stravolto il paesaggio naturale con quelle colate di cemento e di asfalto che sono le città dell’uomo: il parco è una, sia pure sbiadita, memoria di come si presentava lo spazio prima dell’intervento umano.
Qualche anno fa, nella mia disarmante ingenuità, avevo creduto che a Milano, dove c’era lo spazio delle Varesine, sarebbe sorto un piccolo “rimorso” a imitazione del grande “rimorso” del Central Park di New York: i nostri meravigliosi amministratori qualche metro quadrato di verde l’hanno lasciato, giusto per ingannare i più ingenui di me sulla realtà della, come la chiamano, “riqualificazione”, e non provare alcun rimorso per una sfacciata speculazione.
Nello Rossi.
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