Perdita e ritrovamento della realtà nella Fotografia.
Dalla visione attraverso un mirino alle immagini della realtà attraverso un’ interfaccia.
Miliardi di fotografie scattate al secondo, immagini immortalate e momenti emozionalmente azzerati.
Proporzione inversa fra immagini viste e momenti guardati. Non è trascurabile l’accrescersi di strumenti fotografici e aspiranti fotografi, o meri utilizzatori, i quali producono una quantità smisurata di immagini, talvolta superflue.
Citando László Moholy-Nagy, il quale affermava che l’analfabeta del futuro sarà chi ignora la fotografia e non colui che non conosce l’alfabeto, si deduce quanto possa essere importante leggere e conoscere le fotografie, saperle interpretare e, in determinati casi, anche produrle.
Nell’attuale modo di produrre fotografie, e quindi immagini, è venuta meno la realtà: l’interfaccia di uno schermo sostituisce uno sguardo alla realtà attraverso il mirino. Si analizza, quindi, la metodologia del produrre fotografie, in particolar modo nell’approcciarsi all’interfaccia del mirino, nel consumo di massa, passando dalle prime macchine fotografiche fino alle coevi.
Ancora, indagare sulla tipologia di interfaccia, nei primi casi fisica, dedita alla produzione di una fotografia; capire come da una quasi mancanza del mirino, nei primi esemplari di macchine fotografiche, si arrivi ad uno schermo che funga sia da mirino che da visualizzatore dell’immagine. Un rapporto inverso si pone, quindi, fra l’importanza della fotografia scelta e la metodologia di inquadratura. Prima di tentare di riprodurre fotografie già esistenti, si dovrebbe cercare di capirne il vero significato, ripensando alle centinaia di fotografie perse ed imparando a leggerle.
“La storia delle immagini è sempre stata una storia dei mezzi figurativi” (Belting, 2011); Belting analizza la distinzione tra immagine e mezzo, paradigma che permette di comprendere in che modo il corpo, definito dall’autore luogo delle immagini, si riveli centrale nel discorso sul visivo. Attraversando la storia si può far emergere la dicotomia tra immagini interiori ed esteriori, e in particolar modo sul rapporto tra queste e la tecnologia: se il corpo è la scena primaria dove nasce e ritorna l’immagine, è necessario considerare tutti gli elementi che concorrono alla produzione e alla percezione di queste ultime. Interrogandosi sul significato di immagine e fotografia e partendo dall’etimologia stessa della parola, si deduce che l’immagine sia la forma esteriore degli oggetti corporei, in quanto viene percepita attraverso il senso della vista; ma questo a volte non basta, è una definizione che si confà prettamente all’ambito della fisica. L’immagine, infatti, è capace di trasmettere altro che non sia solo percepito dall’occhio: emozioni e sensazioni, per parte trasmessi dagli occhi al cuore e a tutto il mondo dell’immateriale.
La fotografia fino ad oggi ha creato, e continua a farlo, immagini fisiche, che nella maggior parte dei casi sono tangibili e hanno la possibilità di essere toccate con mano, dal negativo alla stampa argentica. Con l’avvento del digitale si è passati a creare fotografie che si sono trasformate dall’essere solo cartacee all’essere una serie di dati. Questa serie di dati, forse con la duplicazione e la copia in grande quantità, ha
fatto si che la fotografia diventasse un’immagine sia per nome, pensiamo all’estensione .jpg, che per comune modo di pensare.(1) Se si pensa all’attuale modo di fotografare, ci si prospetta una persona che attraverso uno schermo decide di fermare un’azione.
Questo, appena citato, è un avvenimento banale, ma non trascurabile. La fotografia non viene più pensata guardando la realtà attraverso un mirino, bensì attraverso un’immagine digitale, fatta di pixel, riprodotta in uno schermo. Si fotografa vedendo già delle immagini, manipolate e modificate su vari parametri, che rappresentano la realtà. Si ferma un’azione, producendo una fotografia da una serie di immagini che scorrono su di uno schermo. La tipologia di interfaccia, nei primi casi fisica, dedita alla produzione e alla scelta, in fase di scatto, di una fotografia è il mirino: esso permette di scegliere e comporre l’inquadratura.(2)
La camera oscura risulta essere un ambiente a tenuta di luce, dove su di una parete viene praticato un piccolo foro, chiamato stenopeico; da tale foro si proietta sulla parte opposta l’immagine capovolta degli oggetti posti all’esterno. L’artista collocato all’interno della camera oscura può così tracciare disegni in prospettiva. L’antenato della fotocamera, il più antico messo in commercio, è il Daguerreotype costruito nel 1839 dalla Susse Frères di Parigi, che utilizzava un sistema di cassette scorrevoli l’una dentro l’altra per realizzare la corretta messa a fuoco sulla lastra fotografica situata nella parete opposta all’obbiettivo. L’idea venne concepita da Joseph Nicéphore Niépce durante il 1826.
Per migliorare le dimensioni delle fotocamere, Lewis introdusse nel 1851 il soffietto estensibile, che permette, ancora oggi, il basculaggio e il decentramento dell’obiettivo.
Questa tipologia di fotocamere, chiamate folding, venne prodotta in vari formati, sia a pellicola che a lastre, per diverse decine di anni. Le più recenti tra le portatili risalgono agli anni sessanta e la tecnica è ancora oggi utilizzata nei modelli professionali da studio: gli apparecchi a banco ottico. In questi modelli vi è la mancanza del mirino; utile, infatti, per l’inquadratura è il vetro smerigliato, della grandezza della pellicola piana dove l’immagine, e, quindi, i raggi luminosi, passando dalla lente, risulteranno impressi in modo capovolto sul vetro. Il fotografo, coprendosi con un panno nero, può, quindi, visualizzare l’immagine esattamente come verrà poi impressa sulla pellicola, attuare la messa a fuoco e, infine, scattare la fotografia. Il fotografo come se fosse ancora all’interno della camera oscura, si isola dal mondo reale per entrare in quello capovolto della sua macchina fotografica.
Con lentezza ed attenzione vi rimane per minuti, fino a quando non sceglie la sua inquadratura e decide di immortalarla per sempre.
Nel 1888 Estman fece la sua comparsa sul mercato fotografico realizzando una delle più importanti fotocamere, la Kodak n.1, frutto dell’intuizione di portare la fotografia nel mercato dei fotoamatori. Il suo apparecchio, destinato a una larga diffusione, era costituito da una semplice scatola contenente un rullo fotografico, sufficiente per cento negativi. Scattate le fotografie, la macchina veniva restituita alla fabbrica, dove il rotolo veniva sviluppato e riconsegnato al proprietario insieme alla fotocamera ricaricata, pronta per altre fotografie. In questi apparecchi il mirino è assente quindi il fotografo, nella maggior parte dei casi inesperto ed amatoriale, non si preoccupava di produrre un’immagine che fosse ben inquadrata oppure perfettamente a fuoco, il suo unico scopo era produrre una fotografia che servisse come ricordo. Discostandosi dall’oscurità del banco ottico il fotografo, in questo caso, osserva la realtà scegliendo la porzione di essa che vuole ricordare e trasmettere alle persone a lui vicine. La fotografia diviene mezzo comune per ricordi personali. Nel 1924 il progettista Oskar Barnack presentò la Leica, un piccolo apparecchio che utilizzava una pellicola formato 35 mm.(3)
La Leica era così maneggevole da consentire ai fotografi di muoversi liberamente, cercare inquadrature e scattare con rapidità. In questi apparecchi è presente, infatti, il mirino di tipo galileiano: la fotocamera ha, al di sopra dell’obiettivo, un ulteriore sistema ottico. Si tratta di un piccolo cannocchiale (di qui il nome galileiano), che permette di inquadrare l’immagine che verrà successivamente impressionata. Il mirino ottico è una soluzione concettualmente semplice ed economica, ma ha alcuni difetti: l’immagine che il fotografo vede non è esattamente quella che impressionerà il piano focale; questo errore è minimizzato per gli oggetti sufficientemente distanti, sebbene il fotografo dovrà prevedere, comunque, un certo margine di sicurezza nell’inquadratura.
Se la fotocamera, in questo caso, cambia obiettivo, dovrebbe cambiare anche il mirino, ovvero il mirino deve essere dotato di un qualche meccanismo che permetta di cambiare l’angolo visuale, adeguandolo a quello del nuovo obiettivo.
Questa metodologia di inquadratura è stata, per il contesto storico, un grande passo in avanti. I fotografi potevano sapere, quasi con precisione, quale sarà stata poi la fotografia, scegliendola da una piccola finestrella e portandola vicino all’organo visivo. Il fotografo non prendeva le distanze dal mondo reale e non si prospettava l’inquadratura solo nella mente: aveva la possibilità di scegliere con attenzione e velocità la sua fotografia. La metodologia spesso utilizzata per la messa a fuoco con questi mirini viene chiamata a telemetro, rendendo così questa tipologia di inquadratura più professionale.(4)
Nel 1929, in Germania, venne presentata una macchina fotografica reflex biottica per pellicola a rullo, con formato di ripresa 120 e fotogrammi 6×6 (5), chiamata Rolleifex: essa rappresentava la moderna macchina fotografica. In questo caso, il mirino è di tipo reflex a pozzetto. Il suo nome deriva dalla posizione orizzontale dove è ricostruita l’immagine, che obbliga ad osservarla dall’alto, come se si stesse guardando in un pozzo.
L’immagine è riflessa da uno specchio a 45° verso un vetro smerigliato posizionato sopra la fotocamera. In questo tipo di mirino, lo specchio raddrizza l’immagine capovolta, ma persiste l’inversione dei lati: ciò che è a destra si vede a sinistra e viceversa. Il fotografo si inchina verso la macchina fotografica dove cerca l’inquadratura in semi oscurità, isolandosi a tratti dal mondo esterno e immergendosi nella realtà specchiata della sua futura fotografia.
Il nome gergale a pozzetto rievoca quasi uno specchio d’acqua, nel quale un’immagine a tratti nitida e a tratti sfuocata, si ricostruisce su di un vetro smerigliato per poi impressionare un fotogramma dell’intero rullo.
A metà degli anni ’30 fu realizzata la prima macchina reflex 35 mm, l’Exakta. La parola reflex ha, nel corso degli anni, assunto un valore quasi magico per i fotografi poiché sinonimo di fotocamera di elevata qualità e di livello professionale. Reflex è semplicemente il nome del particolare tipo di mirino che permette di inquadrare la scena attraverso lo stesso obiettivo.(6)
Il grande vantaggio del mirino reflex sta nella possibilità di inquadrare la scena attraverso l’obiettivo stesso e di vedere, quindi, esattamente l’immagine che impressionerà la pellicola. Sostituendo l’obiettivo, il mirino reflex continuerà a funzionare perfettamente senza bisogno di alcun perfezionamento.
Accanto a questo enorme vantaggio, il sistema reflex trattiene ancora degli svantaggi: un attimo prima dello scatto lo specchio deve essere sollevato per consentire alla luce di arrivare al piano della pellicola. In queste macchine il fotografo torna ad appoggiare il suo volto sul mezzo, e attraverso, una falsa finestra, sceglie l’inquadratura che sarà poi la sua fotografia.
Con questa tipologia di mirino, il più corretto in progettazione, l’utilizzatore è conscio di vedere un’immagine riflessa più volte, ma è come se stesse vedendo la realtà: quell’immagine, che passa da lenti e obiettivo, sarà la stessa che, dopo aver azionato l’otturatore, impressionerà la pellicola e durerà per sempre.
Il mondo della fotografia è al centro di una rivoluzione che sta cambiando la vita: la rivoluzione digitale.
Un vantaggio offerto dalla fotografia digitale è quello di poter valutare immediatamente il risultato ottenuto, rivedendo l’immagine nello schermo dell’apparecchio, senza aspettare lo sviluppo e poi la stampa del negativo. Il mirino ottico è stato, nel tempo, sempre più sostituito da mirini elettronici in grado di riprodurre l’immagine ripresa su di uno schermo LCD installato sul dorso della fotocamera.
Le prime fotocamere digitali affiancavano a questo monitor un classico mirino galileiano (a lenti); negli ultimi anni, molte fotocamere compatte hanno montano, invece, un mirino elettronico, un secondo piccolo monitor LCD posizionato dietro l’oculare. Il fotografo si trova, quindi, ad osservare un’immagine virtuale, virata nei colori e distorta prospetticamente; e a scegliere la fotografia fra varie immagini che scorrono su di uno schermo. Non si osserva la realtà, seppur attraverso un vetro smerigliato o una lente, ma un mondo digitale costruito solo da pixel. In altri modelli, ed anche negli attuali smartphone, il fotografo si allontana dall’apparecchio fotografico, vede la realtà e decide di inquadrarla attraverso una finzione.
Il fotografo, nonostante la sua lontananza dalla macchina fotografica, si discosta dalla realtà e guarda solo il suo schermo, ricco di colori e sfumature, a volte migliori della realtà stessa. Inquadra l’immagine che già conosce, immediatamente dopo averla prodotta la riguarda ancora una volta e poi, o dimentica di averla scattata o ne tange la natura in post produzione.
Si tratta di una frattura: la fisicità lascia il posto alla virtualità. A più di 150 anni dalla sua invenzione, la fotografia si trova in un momento di crisi tecnologica ed epistemologica.
Si avvicina la fine della fotografia chimica ed argentica a vantaggio di quella digitale ed elettronica.
Le fotografie diventano delle simulazioni infinite di se stesse, riproducibili a miliardi nel giro di pochi attimi, tutte uguali per forma. Si è persa, quindi, la natura genuina e la riconducibilità alla realtà, rendendo impossibile distinguere l’immaginario dal reale. Quando la fotografia cessa di essere tale e diviene immagine? Per risolvere questo interrogativo è necessario fotografare con coscienza ed attenzione, non perdendo il nostro tempo in composizioni e tecnicismi, piuttosto tentando di descrivere un sentimento, un concetto o una storia.
Prima di tentare di riprodurre fotografie già esistenti, si dovrebbe cercare di capirne il vero significato, ripensando alle centinaia di fotografie perse ed imparando a leggerle.
Bibliografia e sitografia:
Barthes, R. (1980). La camera chiara, Note sulla fotografia. Torino: Einaudi.
Belting, H. (2011). Antropologia delle immagini / Edizione italiana a cura di Salvatore Incardona. Roma: Carocci.
Benjamin, W. (1931). Piccola storia della fotografia. In Die literarische Welt.
Biscottini, P. (2015). L’immagine diario del silenzio. Milano: Mimesis.
Chiaramonte, G. (2014). Luogo e identità nella fotografia europea.
Chiaramonte, G. (2014). Il dovere della precisione nello scrivere la storia.
Chiaramonte, G. (2014). Quattro esercizi sul visibile.
Cotroneo, R. (2015). Lo sguardo rovesciato. Milano: De Agostini.
D’Amico, T. (2011). Di cosa sono fatti i ricordi. Roma: Postcart.
Débray, R. (1999). Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in occidente. Milano: Il Castoro.
Delle Cese, C. (1990). Fotografia. Milano: Mondadori.
Foschi, G. (2015). Le fotografie del silenzio. Milano: Mimesis.
Garofalo, M. (2016). Della fotografia e della sua autenticità. Intervista per New Old Camera
Ghirri, L. (2010). Lezioni di fotografia, G. Bizzarri, P. Barbaro, con scritti di G. Celati, Macerata: Quodlibet Compagnia Extra.
Krauss, R. (1990). Teoria e storia della fotografia. Milano: Mondadori
Marra, C. (1999). Fotografia e pittura nel Novecento: una storia senza combattimento. Milano: Mondadori.
Marra, C. (2001). Le idee della fotografia. La riflessione teorica dagli anni Sessanta ad oggi, Milano: Mondadori.
Mulas, U. (2007). La fotografia. Torino: Einaudi.
Rebuzzini, M. (2014). Consapevolezza della fotografia, convegno AFIP International.
Rovere, M. (2012). Viaggio nella storia della Fotografia.
Rigotti, F. (2015). Il silenzio per immagini, Milano: Mimesis.
Schaefer J.P. (1994). Fotografia, Un corso base secondo l’insegnamento di Ansel Adams. Bologna: Zanichelli
Note
1. In numerosi concorsi fotografici internazionali, come esempio si può citare il World Press Photo, diverse sono state le polemiche per aver ricevuto immagini non vere, con una post-produzione che non lasciasse la fotografia invariata, bensì intervenisse sui soggetti. In tali casi è stato chiesto ai fotografi partecipanti il file .raw, a testimonianza che l’immagine consegnata fosse una fotografia e non un’immagine manipolata digitalmente.
2. All’interno del mirino, oltre alla visualizzazione della scena inquadrata, sono frequentemente posti gli strumenti per valutare la messa a fuoco e l’esposizione del soggetto. Nel mirino galileano trova posto il telemetro, mentre nel mirino a pozzetto e nel sistema a pentaprisma è possibile trovare il vetro smerigliato, lo stigmometro, la corona di microprismi e l’esposimetro. Le moderne fotocamere digitali mettono a disposizione all’interno del mirino ulteriori strumenti che assistono il fotografo nella fase di scatto.
3. Dalla pellicola cinematografica 35 mm è derivato il formato fotografico 135 che conserva la stessa perforazione con un formato dei fotogrammi di 24 mm × 36 mm. Tale formato è quello che ha avuto maggior successo nella fotografia basata sulla pellicola, soprattutto per il fatto che venne usato da Oskar Barnack per la Leica. Per questa applicazione ideò anche il contenitore metallico munito di guarnizioni di velluto che permette di maneggiare la pellicola in tutta sicurezza in fase di caricamento e scaricamento della fotocamera. Si tratta quindi di un formato di uso generale, che viene usato da praticamente tutti i dilettanti e da buona parte dei professionisti, almeno per le applicazioni meno critiche.
4. Il telemetro ottico è generalmente formato da un cilindro con due fori distinti ad una distanza fissa l’uno dall’altro, all’interno del primo foro è alloggiato un prisma che riflette l’immagine su uno specchio semi-trasparente posto in corrispondenza del secondo foro. Il fotografo, agendo sulla rotazione del prisma, agendo sulla ghiera posta sull’obiettivo, farà in modo che le due immagini del soggetto , composte dallo specchio si sovrappongano perfettamente, generando, sul piano focale, un’immagine correttamente messa a fuoco. L’angolo di rotazione del prisma indicherà, tramite una scala posta sull’obiettivo, la distanza dell’oggetto.
5. La pellicola da 120 non ha alcun foro di avanzamento come nel caso del 135, non ha una struttura di contenimento (il rullino) ma è semplicemente avvolta su di un supporto plastico unitamente ad una striscia di carta nera la cui funzione è di proteggerla dalla luce.
La pellicola medio formato permette differenti dimensioni delle pose, a seconda del tipo di “magazzino” utilizzato (la struttura che contiene la pellicola). Il numero dei fotogrammi ricavabili è pari a circa 9-10 esposizioni dal rullo 120. Furono introdotti da Kodak dal 1901.
6. I due componenti fondamentali del sistema sono il pentaprisma, un prisma a cinque facce, e
uno specchio mobile. Quando quest’ultimo è sollevato verso l’alto consente di scoprire il piano pellicola permettendo lo scatto di una foto. Quando, invece, si trova inclinato di 45o riflette verso l’alto l’immagine che proviene dall’obiettivo, i raggi luminosi entrano nel pentaprisma, passando attraverso un vetrino smerigliato di messa a fuoco, e dopo due successivi riflessioni giunge all’oculare e all’occhio del fotografo come immagine raddrizzata. Infatti, il vantaggio di usare il pentaprisma risiede nel fatto che le due riflessioni capovolgono l’immagine proveniente dall’obiettivo, già capovolta, e quindi inviano al fotografo un’immagine dritta.
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