Come è cominciata
Sono orfani. Orfani morti di parenti vivi che li hanno abbandonati.
La prima volta che ho notato questa umanità derelitta è stata quando ho trovato, accanto a un cassonetto dell’immondizia, la foto di un tale coi baffi. Una foto piuttosto grande, di quelle che si incorniciano e si appendono in camera da letto o in salotto. Osservandola, ho scoperto che quel signore baffuto era andato fino a Parigi per farsi ritrarre, che era il 1922 e che egli aveva all’incirca 25 anni (buffi i tempi: oggi nessuno si riferirebbe a un ragazzo di 25 anni chiamandolo “signore”, ma la foto parla chiaro, questo coi baffi è un uomo fatto, non un ragazzo). Ho tenuto la foto in soggiorno per molto tempo, su uno scaffale alto della libreria, come se fosse stata quella di un nonno, finché non ho cambiato casa. Ora l’ho conservata, ma so bene dov’è, non l’ho abbandonata, anzi, non è escluso che prima o poi non l’appenda da qualche parte, dando il via così ad una galleria di antenati non miei.
Da quella prima, sono molte le fotografie che ho recuperato sui banchetti dei robivecchi, con bambini, donne, uomini fermati in un istante di vita lontana. Io li ho fatti riscaldare al fuoco del mio interesse, li ho solleticati con una nuova curiosità, ho provato a capirli, a ricordarli immaginandone la vita e inventando per loro vite diverse. Insomma: li ho adottati tutti.
Qui la serie completa.
Da poco la signora G.
Da poco la signora G. era andata ad abitare vicino al signor C., scapolone impenitente che s’era scavato una tana giusta per lui al primo piano del palazzo in cui viveva con la madre vedova. Il padre, ricco notabile della città, era morto una decina di anni prima, lasciando la moglie e l’unico figlio eredi di una discreta fortuna che i due si erano messi subito, e di buona lena, a sperperare. C. era un tipo dinamico e brillante in tutto tranne che nel lavoro, e il suo studio d’avvocato, un paio di stanze accanto al suo appartamento, gli serviva più che altro come luogo d’incontro per pianificare i rapporti sociali della giornata, e lo divideva con un vecchio segretario, ereditato anche quello dal padre.
Una mattina, mentre usciva dallo studio per andare a pranzo da un amico, non sfuggì al signor C. l’avvento della signora G. arrivata ad occupare, insieme al marito e ai due figli piccoli, la villetta a fianco. Non solo perché il trambusto nella via dovuto a un trasloco sarebbe bastato ad attirare l’attenzione, non solo perché la nuova famigliola arrivava da Nizza, ma soprattutto perché la signora, bionda e esile, era di una bellezza sublime. Queste furono proprio le parole esatte che gli vennero alle labbra quando la vide per la prima volta, attorniata da balie, bambini, valigie e cappelliere. Se ne stava sulla soglia della sua nuova casa e impartiva ordini come se parlasse al gatto, dolcemente, quasi distratta. Sarà stato l’accento francese oppure l’abbigliamento orientaleggiante, molto pratico e nello stesso tempo elegante, che evidentemente aveva prescelto per dedicarsi a quelle incombenze, oppure quel suo sguardo leggermente strabico e indolente, fatto sta che le parole gli sorsero come l’acqua da una polla, “bellezza sublime”.
Dunque, da allora era passato poco, un paio di mesi al massimo, e il signor C. aveva ormai coinvolto tutti i suoi conoscenti, la madre, ogni suo potere, oltre ovviamente all’intero essere suo, all’unico scopo di entrare a far parte della vita della signora G. la quale invece, e nonostante tutti gli sforzi del vicino, s’era appena accorta di lui.
C. aveva assunto l’aspetto di un innamorato più che respinto, disperato: era dimagrito, aveva le occhiaie per le ore di sonno perso, continuamente distratto vestiva in modo strano e trascurava il barbiere.
Finché un giorno un amico, preoccupato per la sua salute, non l’invitò a caccia per qualche giorno. Di buon mattino, ma di malavoglia, C. uscì col cane per raggiungere la carrozza che l’attendeva davanti a casa e avvenne il fatto: un movimento rapidissimo, dall’albero lì accanto e diretto verso la villetta in cui abitava la bella nizzarda, allertò il cane che, in una frazione di secondo, si buttò all’inseguimento di una palla di pelo grigio. L’inseguimento e l’incontro fra il cane e la palla di pelo, rivelatasi in seguito un gatto persiano, furono quanto di più rumoroso si possa immaginare e si effettuarono per lo più nel giardino in questione, dove il cane riuscì a entrare passando attraverso la siepe di mortella che lo circondava. Si udirono miagolii e latrati, rumori di vasi rovesciati e di legna rotolante, infine un unico, altissimo ululato e il portone della casa che si apriva. Quando C. poté finalmente entrare, trovò il suo cane mugugnante ai piedi di un albero, con un orecchia che sanguinava, mentre il gatto era appollaiato sul primo ramo, arruffatissimo, e stava emettendo un suono sordo e continuo. Subito dopo C. udì l’agognata voce venire verso di lui: “Puf puf, mon chery, tu es arrivé”.
Fu così che, quello stesso pomeriggio, C. decise di farsi fotografare insieme al suo cane.
Progetto grafico e realizzazione eBook: espressionidigitali
Testi e audioracconti: Giuliana Battipede
Fotografia dell’autrice: Cristiano Vassalli
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