In collaborazione, redatto e pubblicato da Doog Reporter
SATKHIRA | BANGLADESH
Con riguardo ma senza alcuna timidezza si avvicinò. Poteva avere otto, forse nove anni.
Occhi grandi, neri. Occhi profondi, a tratti dolenti tanto da sembrare un uomo.
Fissandomi disse qualcosa che io non capii subito ma immaginai volesse sapere il mio nome e io glielo dissi in inglese: Gabriel.
All’estero ho l’abitudine di dire il mio nome in inglese perché sembra sia più facile da ricordare.
Lui sorrise con gli occhi ancor prima che con la bocca e mentre lo faceva, senza che io glielo chiedessi, mi disse il suo. Me lo feci ripetere. Ancora una volta. Poi una terza. E ogni volta non capivo. E ogni volta i suoi occhi continuavano a sorridere.
Nei giorni passati in uno dei paesi più poveri al mondo non sono mai riuscito a capire come realmente si chiamasse il mio nuovo amico. E questo mi dispiace ancora adesso. Il suo nome poteva essere: Anil, Kamal, Jograj; oppure Hiresh, Gulab, Geet, Devesh, e comunque non sarebbe cambiato nulla, perché il suo nome mi sarebbe servito solo per richiamarlo, oppure descriverlo un giorno, ma non certo per ricordarlo.
Quindi lo chiamerò Charan, mi piace il suono di questo nome che in sanscrito significa “Piedi di Dio”.
Charan parlava la lingua del suo paese, il Bangladesh, e mentre lo faceva sembrava un fiume in piena. Suoni incomprensibili che nel suo quotidiano avevano un senso, producevano in me l’unico effetto di farmi sentire fuori luogo. Poco distante, urla gioiose distraevano il nostro improbabile dialogo e, anche per soddisfare la mia indole curiosa, con Charan mi avvicinai al pukur brulicante di vita.
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