La notte è complice della fotografia.
Perché sottrae allo sguardo la volgarità della luce che niente risparmia.
E perché permette di cogliere sottili vibrazioni, esauritosi il chiassoso tumulto del moto indifferenziato.
Bandita la presenza umana, l’inanimato s’anima.
La luce artificiale, sceglie.
L’ombra è più ombra, e ciò che l’attornia viene sbalzato.
Ma vi è quiete, non stasi.
Nessuno passa, ma non niente si muove.
Nella fotografia a corredo di questo brano s’agitano fronde in alto a destra
Più timidamente i sottostanti arbusti.
In modo ancor meno smaccato, la gonfia sintetica tenda a sinistra.
Ecco, il rapporto con il tempo in questa immagine.
Nell’immediato, il prolungato tempo d’otturazione – cinque secondi – media l’istantaneo con il flusso: fa percepire mosso ciò che una esposizione breve – nemica dell’oscurità – congelerebbe.
Nel remoto, invece, traghetta.
Sì, il muro sbrecciato collega il passato con il presente.
Inedito fu il manufatto, indi sopravvenute rughe testimoniano stratificazione.
Forse lampade a petrolio luminarono il sito.
Ora l’elettricità muta il tono.
Maggiore efficienza, minore intimità.
Con l’algido palo, poi.
Rigorosa epperciò asettica affusulazione.
Più che integrarsi, pare estraneamente marginare.
Ma la luce rivela pregressa vita.
Calcinacci come cenere ch’ancora arde.
Ciò ch’era non si cancella.
La fotografia, legando traghetta.
Fonde incoevità.
Sì, fonde incoevità: il momento – di notte, può non essere attimo – dello scatto sbircia il passato e l’offre al futuro.
Ove plurimi sguardi eterogeneamente introiteranno.
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Claudio Trezzani
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